18 articoli dell'autore Annamaria Parlato

Annamaria Parlato 28/10/2024 0

Sant'Egidio, i piatti dell'osteria 'O Ciardin nutrono anche l'anima

Da un oste ci si può aspettare molto più di un semplice servizio al tavolo. Un oste è, prima di tutto, un padrone di casa, un anfitrione capace di creare un'atmosfera calorosa e accogliente, che fa sentire ogni cliente come un ospite speciale. È quella figura che sa mettere a proprio agio, pronto a spiegare ogni piatto del menù, a raccontare l’origine degli ingredienti, le storie che stanno dietro le ricette, persino qualche aneddoto sul locale e sui clienti abituali.

L’oste ideale conosce a fondo il territorio e i suoi sapori; è appassionato del proprio mestiere e ama condividere questa passione con chiunque entri nel locale. Sa consigliare il vino giusto per ogni portata, spiegare perché quella ricetta si prepara in un certo modo, raccontare la stagionalità e la provenienza degli ingredienti. Spesso, questo fa la differenza nell’esperienza del cliente, che non vive solo un pasto ma un piccolo viaggio culturale attraverso la tradizione e la storia del luogo.

Inoltre, l'oste sa quando fare un passo indietro per lasciare che i clienti si godano il loro momento di tranquillità e quando invece unirsi al tavolo per uno scambio di battute o due chiacchiere. È una figura che rappresenta l'autenticità, qualcuno che non ha paura di mostrarsi genuino e che vede nel suo lavoro una vocazione, non solo un impiego. Ci si può aspettare, insomma, qualcuno che sappia dosare discrezione e presenza, che abbia una profonda conoscenza del cibo e del vino, che sia capace di creare una connessione tra il cliente, il locale e la cultura del luogo.

Luigi Gargano, proprietario dell’osteria ‘O Ciardin sin dal 2013, nel borgo antico di Sant’Egidio del Monte Albino, incarna tutto ciò. Egli non è solo un gestore ma un ambasciatore della cultura locale e dei sapori autentici. Coniuga il rispetto per le tradizioni con una visione che sa rispondere ai gusti e alle esigenze di oggi, come la scelta di ingredienti sostenibili, l’attenzione alle intolleranze e la valorizzazione delle eccellenze del territorio. L’Osteria, a due passi dalla chiesa della Madonna delle Grazie, le cui prime notizie risalgono al 1639, anche se l’assetto attuale risale alla fine del 1700, è un locale che si contraddistingue per la sua accuratezza, la sua nobile rusticità e il contesto paesaggistico nel quale è immersa, ossia un incantevole giardino di arance e agrumi locali, il cui accesso è veicolato dal cortile di Palzzo Ferrajoli della Cappella, architettura gentilizia e colta del XVIII secolo.

Il locale sembra una finestra aperta sul passato, dove il profumo di cibo genuino e storie antiche si intrecciano. Luigi qui accoglie i visitatori con un sorriso sempre sincero e un menù che diventa pura espressione del territorio sangiliano. Mentre serve un piatto di fusilli sangiliani all’uovo, racconta delle ricette tramandate oralmente, custodite come piccoli tesori. "Qui - dice con una punta di orgoglio - non troverai niente che non venga da questi monti o da queste terre. Dalla carne al vino, passando per le verdure e gli aromi, tutto è frutto della fatica e dell’amore della gente del posto".

Poi parla dei suoi clienti, dei volti degli amici che conosce da anni e dei nuovi visitatori che vengono a cercare un pezzo di autenticità. "O Ciardin - spiega - è il cuore pulsante della comunità: non è solo un luogo dove si mangia, ma qui si condividono risate, racconti e legami che sopravvivono al tempo. In un mondo che va di fretta, qui ci si può fermare, assaporare e ricordare chi siamo e siamo stati".

Ogni angolo dell'osteria racconta un aneddoto: i dipinti alle pareti di un’artista di Sant’Antonio Abate narrano i mestieri, i monumenti, la storia del borgo e delle persone che lo hanno vissuto. Mentre Luigi esterna la sua vivace personalità (una laurea in Economia del Turismo  e tanti validi progetti nel cassetto), si capisce che l’osteria non è solo un lavoro per lui, ma una missione: tenere vive le tradizioni e portare avanti l’anima di Sant’Egidio per le generazioni future. Gli ingredienti della sua cucina sono quasi sempre a chilometro zero e di stagione, scelti con cura da produttori locali per garantire un’alta qualità e un’impronta autentica. Il trend si allontana dalle sofisticazioni della cucina gourmet, puntando invece su porzioni più generose, ingredienti riconoscibili e un’ambiente senza fronzoli, ma accogliente.

Al centro c’è anche l’idea di osteria come spazio sociale, dove il cibo è un pretesto per ritrovarsi, per scambiarsi opinioni e per sentirsi parte di una comunità. La clientela che apprezza ‘O Ciardin è variegata: si va dagli anziani, che vi trovano i sapori della loro infanzia, ai giovani, sempre più alla ricerca di esperienze culinarie autentiche e sostenibili. I piatti di questa Osteria, presente da anni nella Guida Osterie d’Italia di Slow Food, raccontano storie di tradizione, fatica e cultura locale. Sono come pagine di un manuale che spiega il legame con la terra, le stagioni e i saperi contadini. Qui il cibo è semplice ma carico di significato: rappresenta il comfort e l'accoglienza, un invito a rallentare e a riscoprire i sapori genuini.

I piatti non sono mai troppo elaborati; sono fatti per saziare, scaldare e rievocare ricordi familiari, come un abbraccio. Zuppe e minestre contadine, spesso a base di legumi o verdure di stagione, carni brasate, grigliate o in umido, contorni di verdure fresche o ripassate, e magari delle patate al forno profumate con erbette di montagna, costituiscono le portate principali del menù, arricchito da paste fatte a mano, un po' di pescato della Costiera Amalfitana, selvaggina e dolci della casa. Il pane è immancabile, spesso fatto in casa o proveniente da forni locali, ed è usato per accompagnare tutto il pasto, raccogliendo sughi e condimenti fino all'ultimo boccone o degustato in purezza con l’olio extravergine d’oliva biologico. E, naturalmente, si possono gustare formaggi locali e salumi artigianali, serviti con marmellate, confetture, mostarde e miele per esaltarne i sapori. L’Osteria propone anche una selezione di vini campani e birre artigianali, accentuando ulteriormente il legame con il territorio.

Si consiglia l’assaggio, in questa stagione, della vellutata di castagne con sciuanelle (listarelle di polenta fritta con lo strutto che fungeva da copertura delle pastiere di maccheroni cotte nel forno a legna il Sabato Santo, per evitare che si bruciassero in superficie) e legnasanta (cachi), gli spaghetti cacio e pepe con zeste di arancia di Sant’Egidio, un vera prelibatezza, lo stoccafisso o meglio il curuniello (filetto) in umido con piennolo giallo e peperoncino, i funghi chiodini saltati in padella, la torta di ricotta e limoni di Sant’Egidio infornata e la caprese alle mandorle con crema inglese al rosmarino e gelato al fiordilatte. Sono piatti capaci di nutrire non solo il corpo, ma anche l’anima, nell'ombra calda dell’osteria si posan gli affanni e svanisce la via, tra pane, vino e silenzi d'argento.

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Annamaria Parlato 19/10/2024 0

Da Nuceria Paganorum all'araldica, la noce è alimento nobile nell'Agro

Nocera dei Pagani, o Nuceria Paganorum, era il nome di una civitas esistita tra il XVI secolo e il 1806, comprendente l'attuale territorio di cinque comuni: Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Pagani, Sant'Egidio del Monte Albino e Corbara. Questo territorio faceva parte dell'antica Nuceria Alfaterna e in passato aveva dominato la piana del Sarno, arrivando fino a Stabia e Pompei.

Il nome "Nocera dei Pagani" appare per la prima volta nel XVI secolo, legato alla famiglia Pagano, signori del borgo medievale di Cortimpiano (oggi Pagani). La crescente importanza della famiglia portò al cambiamento del nome da Nocera dei Cristiani a Nocera dei Pagani. La civitas di Nocera dei Pagani era divisa in due dipartimenti: Nocera Soprana, comprendente i casali che avrebbero dato origine a Nocera Inferiore e Nocera Superiore, e Nocera Sottana, composta dalle università di Sant'Egidio, Pagani e Corbara.

Queste università (equivalenti ai Comuni odierni) godevano di autonomia politica ed economica, con sindaci, parlamenti e magistrati propri. Ogni anno, in agosto, gli abitanti maschi maggiorenni eleggevano in assemblea un sindaco e alcuni membri, equiparabili agli attuali assessori. Nocera Sottana, inoltre, eleggeva un sindaco universale che, insieme ai due sindaci universali di Nocera Soprana, formava un triumvirato responsabile delle questioni comuni alla confederazione. Ciascuna università possedeva un proprio demanio, costituito da case, terre e boschi, oltre a un demanio comune alla città, composto principalmente da selve che occupavano gran parte del territorio.

Nelle selve il noce era la cultivar predominante assieme alla quercia, tanto da assumere una certa importanza sia nell’economia locale sia nella storia dei comuni, attraverso l’araldica. A Sant’Egidio del Monte Albino, a partire dal XVI secolo, avveniva l’elezione del Sindaco, dopo il saluto del rappresentante del Governatore della Città di Nocera, dinnanzi alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, col sistema delle fave e delle noci deposte in un sacchetto sul sagrato dell’Abbazia di Santa Maria Maddalena in Armillis.

Lo stemma di Nocera dei Pagani ha una lunga e complessa storia legata all'evoluzione del territorio e delle sue comunità. Il simbolo principale è un albero di noce sradicato, che rappresenta un tipico esempio di "stemma parlante", dove l'elemento araldico richiama il nome del luogo o della famiglia, in questo caso il noce (latino: nux) e Nocera. Tuttavia, il nome Nocera ha un'etimologia diversa, legata probabilmente all'antico nome della città romana Nuceria Alfaterna. L'uso dello stemma con l'albero di noce risale ufficialmente al XVI secolo, ma la sua origine è più antica. Lo stemma, infatti, deriverebbe dal blasone della famiglia dei Conti di Nocera, un'importante casata locale nata dai Dauferidi nel XI secolo, che governava su vaste porzioni del territorio. La rappresentazione dell'albero di noce nello stemma divenne quindi il simbolo identificativo della città di Nocera dei Pagani.

Esistono diverse versioni dello stemma, riportate da vari autori. Il De' Santi, nella sua opera "Memorie delle famiglie nocerine", descrive lo stemma originale come uno scudo dorato con un albero di noce al naturale. Tuttavia, una versione più diffusa vede lo stemma su fondo azzurro, con frutti d'oro pendenti dai rami. Un'altra versione dello stemma, riportata da Monsignor Lunadoro e dal Maruggi, raffigura una donna in abito purpureo che ferisce con un ferro un giovane addormentato in un letto, richiamando un racconto del greco Dositeo, riportato da Plutarco, sulle origini di Nocera. Questa versione è meno certa storicamente.

Lo stemma di Nocera dei Pagani si è poi evoluto, dando origine agli stemmi attuali delle città nate dalla suddivisione di Nocera dei Pagani, tutti con l’albero del noce: Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Pagani e Sant'Egidio. Rappresentazioni scultoree dello stemma con il noce si trovano in vari luoghi storici del territorio, tra cui edifici religiosi e civili a Nocera Inferiore, Nocera Superiore e Pagani, come la chiesa del Corpo di Cristo, il Convento di Santa Maria degli Angeli e il campanile del Convento di Sant'Antonio.

Oggi la noce è un prodotto largamente diffuso sul territorio dell’Agro e la varietà utilizzata è quella Sorrento. Conosciuta per la qualità del suo frutto e per le sue eccellenti caratteristiche organolettiche, la Sorrento ha una lunga tradizione di coltivazione in Campania, tanto da essere diventata un simbolo dell'agricoltura locale. Ha una forma ovale allungata, con un guscio sottile ma resistente, che la rende facile da rompere. La dimensione è generalmente media, ma il frutto risulta di alta qualità. Il guscio è chiaro, liscio e uniforme, particolarmente apprezzato per la facilità con cui può essere aperto. Il gheriglio (la parte commestibile) è di colore chiaro, di forma regolare e si stacca facilmente dal guscio. Ha un sapore delicato, leggermente dolce e molto piacevole, ricco di oli essenziali che conferiscono un aroma caratteristico.

Il gheriglio di questa varietà è particolarmente apprezzato perché si presenta integro dopo la rottura del guscio, una caratteristica importante per il consumo diretto e l’uso culinario. Questa varietà è molto apprezzata sia per il consumo diretto, sia nell’industria dolciaria e gastronomica. Le noci Sorrento vengono utilizzate nella preparazione di dolci tradizionali campani, come le torte di noci, ma anche in liquori e condimenti. Grazie al suo sapore delicato, la noce Sorrento si presta bene anche a essere abbinata a formaggi, insalate e piatti a base di carne.

Le noci erano spesso consumate al naturale, sia fresche appena raccolte (periodo settembre-ottobre), sia dopo l’essiccazione. La noce fresca era più morbida e dal sapore delicato, mentre quella secca aveva una consistenza più croccante e poteva essere conservata per lunghi periodi, soprattutto durante i mesi invernali quando gli altri alimenti freschi scarseggiavano. La capacità di conservarsi a lungo le rendeva una risorsa importante nelle dispense delle famiglie. Le noci, oltre ad essere apprezzate per il loro valore alimentare, erano un tempo protagoniste di vari giochi tradizionali praticati dai bambini, soprattutto in contesti rurali.

Il noce ha una presenza significativa nella letteratura e nella poesia di varie epoche, spesso simbolo di saggezza, fertilità, mistero e longevità. Esempio significativo le poesie di Giovanni Pascoli, incluse nella raccolta "Primi Poemetti", in cui il noce diventa simbolo di protezione familiare e rifugio sicuro sotto cui la vita continua il suo ciclo naturale. Le poesie riflettono il tema pascoliano della "memoria dell'infanzia" e del ritorno alle radici, dove il noce è testimone delle vicende umane e parte integrante di un paesaggio che è al tempo stesso fisico e interiore.

Grazie alla sua figura imponente, il noce è stato associato anche a leggende e miti, in particolare quelli legati alla magia e alla stregoneria. Sempre in Campania, il celebre "Noce di Benevento" è un simbolo leggendario legato a storie di streghe e riti esoterici. Le streghe si radunavano, secondo la tradizione, sotto l'ombra di un grande noce per celebrare i loro sabba.

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Annamaria Parlato 27/09/2024 0

"Arrevuoto" a Pagani coi panini Puok e i cocktail Cinquanta Spirito Italiano

Non è bastato molto per raggiungere il pienone in Via Trento a Pagani, giusto il tempo di promuovere un post sui social e dai giochi si è passati ai fatti. I due soci, Alfonso Califano e Natale Palmieri, hanno ben pensato di ospitare il noto Egidio Cerrone, il re dei panini in stile napo-americano, per tre sere nel loro fashion-bar paganese, tra i migliori al mondo nella mixology (candidatura Best International Bar Team per gli Spirited Awards Tales of the Cocktail), abbinando a tre panini di punta di Puok altrettanti cocktail tratti dal nuovo menù dei drink (“Baropoli”), in cui ad essere esaltato è proprio il settore agroalimentare.

Stasera è l’ultima occasione per provare a cena un'adrenalinica corsa nel foodporn di stampo partenopeo sulle montagne russe del piacere alcoolico. Nel menù curato da Ingordo, alias Alessandro Tipaldi, ci sono anche sfizi iniziali a base di straccetti di pollo homemade o patatine classiche e non mancano i dolci come la pizza di gallette e il tiramisù.

I panini portati da Egidio in persona a Pagani, e preparati dal suo team di giovanissimi cuochi nelle cucine del Cinquanta, sono: lo Smashed One, un panino storico con doppio hamburger del peso di 200 gr. a cottura “smashing” (la carne macinata viene pressata o "schiacciata" direttamente sulla piastra o sulla griglia durante la cottura), emmental fuso, doppio bacon croccante e salsa segreta; il CheeseBurger Sbagliato, nato nel 2023, con provola impanata nei cornflakes e fritta, bacon croccante, salsa puok e chili di carne senza fagioli; Genovese Astrospaziale, con pulled di manzo alla genovese, caciocavallo alla piastra, cipolle infarinate e fritte e maionese alla genovese, ideato a gennaio 2024 e il cui incasso dei primi quattro giorni di vendite (5000 euro) è stato devoluto per il recupero del cimitero delle Fontanelle a Napoli. A questi panini si abbinano: Gin Tonic con gin, peperoncino dolce e acqua tonica; Tulipomania con rum, St.Germain e miele di frutta; Gimlet con vodka e gazpacho di frutta e verdura.

I panini di Puok&Med sono diventati un'icona dello street food napoletano, grazie all'originalità e alla qualità degli ingredienti utilizzati. Creati da Egidio Cerrone, in seguito ad un’idea nata nel 2016 e sfociata poi nell’apertura di due punti vendita (Vomero e Spaccanapoli), conosciuta come Puok, avevano alla base un progetto di food blogging per poi evolversi in veri e propri punti di ristorazione. Questi panini combinano sapori tradizionali e ingredienti locali con un tocco di modernità, creando abbinamenti gustosi e sorprendenti.

Alcuni degli ingredienti chiave nei panini di Puok includono carne succulenta (polpette, porchetta, hamburger di alta qualità) e condimenti tipici della cucina napoletana (friarielli, melanzane, provola affumicata, salsa di pomodoro). L'idea è quella di reinterpretare i sapori del territorio in chiave USA, con porzioni abbondanti e un'estetica che attiri l'attenzione, perché si sa che l’occhio vuole sempre la sua parte.

Ogni panino ha una sua identità, spesso con nomi accattivanti, e viene preparato con grande cura, unendo la tradizione della cucina campana con un concetto contemporaneo di street food. Se a tutto questo, colorato di arancione, aggiungiamo l’estro e l’originalità nel miscelare del Cinquanta allora avremo un’Orange GangBang o meglio, come dicono a Pagani, un “arrevuoto”, cioè un particolare fermento gastronomico di persone che, incuriosite, approfitteranno dell’occasione unica per degustare questi panini nella provincia salernitana. Non resta che affrettarsi sia in modalità asporto che ai tavoli, questo è l’arancione che piace!

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Annamaria Parlato 22/09/2024 0

La varietà del cachi Vaniglia o Legna Santa, dessert campano naturale e goloso

Il cachi è il frutto del Diospyros kaki, una pianta della famiglia delle Ebenacee; il nome cachi viene riferito anche alla pianta stessa, che in italiano è detta diospiro, fico del Giappone, o erroneamente, loto. E’ originario della Cina, dove è diffusamente coltivato. Dalla Cina, la coltivazione del cachi si diffuse in Giappone e Corea, dove il frutto divenne un alimento apprezzato e parte integrante della cultura culinaria. L’albero può anche raggiungere i 10 metri d’altezza; la sua chioma di color verde cupo, quasi metallico, lo fa apprezzare, oltre che come albero da frutto, anche come pianta ornamentale. Del resto, prima della sua introduzione in Europa nel XIX secolo, veniva coltivato in rari esemplari nei giardini, principalmente per questo scopo.

Il frutto è particolarmente legato alla tradizione autunnale e invernale italiana e viene consumato fresco o essiccato. In alcune regioni, viene chiamato anche "loto" o "kaki", dal nome giapponese. Le foglie sono ovali, sparse, grandi, acute alle due estremità, e nel tardo autunno, prima di cadere, assumono un caratteristico colore rossiccio. I fiori sono piccoli e hanno una corolla verdastra. I frutti sono vari per colore e forma; per lo più subglobosi, un po' compressi, hanno un colore che comprende le sfumature dall’aranciato al rosso. Resistono attaccati alla pianta anche fino ai primi geli; spiccano allora tra i rami spogli, resistendo anche ai venti più forti, essendo provvisti di peduncoli robusti.

Quelli di alcune varietà hanno polpa succosa e dolce non appena raccolti e quindi possono essere subito consumati; quelli di altre, invece, alla raccolta, sono aspri ed hanno azione astringente per la presenza di abbondante tannino nelle cellule della polpa. Dopo un periodo di conservazione in frutteto, anneriscono e la polpa diventa zuccherina. I cachi sono utilizzati in diverse preparazioni culinarie, dalle marmellate ai dolci, e sono apprezzati anche per il loro elevato contenuto di vitamine, in particolare A e C. Frullando la polpa di cachi con panna o yogurt, si può ottenere un dessert cremoso e delicato. I cachi non astringenti, più sodi, possono essere tagliati a fette e aggiunti a insalate per un tocco di dolcezza. Si abbinano bene con ingredienti come rucola, noci, formaggio di capra o feta, e un condimento a base di olio d'oliva e aceto balsamico.

Anche se meno comune, il cachi può essere usato in piatti salati, come accompagnamento a carni arrosto o formaggi stagionati, dove la sua dolcezza contrasta con i sapori più intensi. In molte culture, il cachi viene essiccato per essere consumato come snack. I cachi essiccati sono una versione concentrata del frutto, con un sapore ancora più dolce, simili a delle piccole caramelle naturali. In Giappone, vengono preparati gli "hoshigaki", cachi essiccati tradizionalmente appendendoli all'aria.

In Campania, la varietà del cachi vaniglia, quando si presenta matura ma non molle, è detta Legna Santa, in riferimento alla membrana interna che ricorderebbe la croce di Gesù o al nocciolo che, se spaccato a metà, conterrebbe una fibra vegetale simile a due mani in preghiera, dette “manine di Gesù”. Il Legna Santa, dalla consistenza piacevolmente croccante, può esser messo sottaceto in barattolo e servito nell’insalata di rinforzo della Vigilia di Natale. Quando invece matura e diventa molliccia, allora con un cucchiaino si può degustare la polpa vanigliata, utilizzata in pasticceria e gelateria. I cachi sono molto energetici e calorici, se consumati in abbondanza costituiscono un toccasana per tutto l’inverno.

Le piante di cachi vaniglia, frutti a volte dimenticati di antichissima coltivazione, resistono ancora nei frutteti di tipo tradizionale, concentrati fra Napoli e Salerno, soprattutto nell'Agro Acerrano-Nolano e Nocerino-Sarnese, oltre che nell'area Vesuviana, che è la zona di origine ed elezione.

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Annamaria Parlato 07/09/2024 0

Successo oltre ogni aspettativa per la Festa del Fusillo di Sant'Egidio

Lo scorso fine settimana (29-30-31-1) si è tenuta la tanto attesa Festa del Fusillo di Sant'Egidio del Monte Albino, un evento ideato dal micro-pastificio "Come Tradizione" che ha superato di gran lunga le aspettative e ha lasciato un segno indelebile nei cuori di tutti i partecipanti. Organizzata nel suggestivo borgo di Sant'Egidio, la manifestazione ha celebrato non solo il fusillo sangiliano De.Co., simbolo della tradizione culinaria locale, ma anche l’importanza del cibo come elemento di unione e convivialità.

L'afflusso è stato costante, con famiglie, gruppi di amici e visitatori giunti anche dalle città limitrofe. L’atmosfera era vivace e gioiosa, il paese si è trasformato in un crocevia di profumi, colori e sapori, che hanno esaltato la cultura gastronomica del posto. Quattro serate in altrettanti ristoranti locali (Sce Sce, Al Quadrato, Borchiotto, 'O Ciardin) con i rispettivi menù degustazione in cui il fusillo è stato esaltato sia in cucina (fusillo con corbarino e scaglie di provolone del monaco, fusillo con pomodorino giallo, guanciale croccante e scaglie di ricotta salata, fusillo con salsiccia e funghi porcini, fusillo cacio e pepe con arance di Sant'Egidio), sia attraverso i laboratori didattici per apprendere l'antica arte, dedicati a grandi e piccoli tenuti da Carolina Campitelli e sua madre, titolari del pastificio.

La tradizione del fusillo sangiliano potrebbe derivare dall’influenza del Cilento, da storie legate ai ricci di un cavaliere, o essere un omaggio alla Madonna delle Grazie. Sicuramente, però, questa usanza di fare la pasta in casa, tramandata di generazione in generazione, è una parte viva della cultura autoctona. La Festa si è rivelata molto più di una semplice celebrazione gastronomica: un'occasione di incontro, di riscoperta delle tradizioni e di valorizzazione del territorio.

Il successo di questa edizione lascia presagire un futuro ancora più brillante per un evento che, ormai, è diventato un appuntamento imperdibile per tutti gli amanti della buona cucina e delle tradizioni gastronomiche. Non resta che aspettare la prossima edizione, con la certezza che sarà all'altezza, se non superiore, del successo di quest'anno!

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Annamaria Parlato 30/08/2024 0

Nella valle del Sarno rivive la tradizione della pannocchia d'estate

La pannocchia è la spiga del mais, caratterizzata da un insieme di chicchi disposti in file attorno ad un asse centrale. I chicchi, che variano nel colore dal giallo all'arancione, fino al rosso o viola, sono la parte commestibile della pannocchia. Ha una storia lunga e affascinante, che risale a migliaia di anni fa.

Il mais, da cui deriva la pannocchia, è originario del Messico. Le prime coltivazioni risalgono a circa 9.000 anni fa, quando le popolazioni indigene iniziarono a selezionare e coltivare il teosinte, una pianta erbacea selvatica, che è l'antenato del mais moderno. Attraverso una lunga selezione artificiale, gli antichi agricoltori riuscirono a sviluppare le varietà di mais che conosciamo oggi. Il mais si diffuse rapidamente in tutta l'America, diventando un alimento base per molte civiltà precolombiane, come i Maya, gli Aztechi e gli Inca.

Oltre al suo utilizzo alimentare, il mais aveva anche un ruolo importante in cerimonie religiose e culturali. Fu introdotto in Europa dopo l'arrivo di Cristoforo Colombo nelle Americhe, nel 1492. Gli esploratori spagnoli e portoghesi portarono i semi di mais nei loro paesi d'origine, dove la pianta si adattò bene ai climi temperati. Nei secoli successivi, il mais si diffuse in tutta Europa, Asia e Africa. In Italia, la sua coltivazione prese piede soprattutto nel nord, nelle regioni della Pianura Padana, dove il clima era favorevole alla sua crescita.

In Italia, il mais divenne rapidamente un alimento base, soprattutto nelle regioni settentrionali. La polenta, un piatto a base di farina di mais, divenne uno dei cibi più comuni tra le popolazioni rurali. La pannocchia, invece, era consumata sia fresca che essiccata. Con il tempo, la coltivazione del mais contribuì alla rivoluzione agricola in Europa, poiché offriva un raccolto abbondante e nutriente, che poteva sfamare grandi popolazioni. La pannocchia è diventata un simbolo di abbondanza e prosperità. In molte culture, è associata al raccolto e alla festa.

Oggi, il mais è una delle colture più importanti al mondo. Viene utilizzato non solo per l'alimentazione umana, ma anche per la produzione di mangimi animali, biocarburanti e numerosi prodotti industriali. La pannocchia, in particolare, rimane un cibo apprezzato e viene consumata in molte forme diverse, è anche utilizzata per produrre farina di mais, olio e altre derrate alimentari. È spesso protagonista nelle sagre italiane, dove viene celebrata come simbolo di tradizione agricola e gastronomica. Durante queste feste popolari, che si svolgono solitamente nei mesi estivi o all'inizio dell'autunno, la pannocchia viene preparata in vari modi, ma la versione più comune è quella grigliata o arrostita.

A Castel San Giorgio (SA), nella valle del Sarno, ogni anno si tiene la Sagra della Pasta e Fagioli e della Pannocchia, dove viene servita anche fritta. La pannocchia viene spesso cotta su grandi griglie all'aperto, esaltando il suo sapore dolce e affumicato. I partecipanti alle sagre la consumano direttamente dal torsolo, magari condita con un po' di sale, burro, salse o altre spezie, ma anche cioccolata. La pannocchia è diventata un simbolo dell'estate, associata a momenti di relax, vacanze e pasti all'aperto. La sua popolarità durante i mesi estivi è un esempio di come le tradizioni agricole si siano integrate nelle abitudini alimentari moderne.

Il venditore di pannocchie era una figura popolare ("o' spicaiolo"), particolarmente amata dai bambini e dai lavoratori, che cercavano uno spuntino economico e nutriente. In molte comunità, il venditore di pannocchie (dette in dialetto "pullanchelle") era conosciuto da tutti e la sua presenza era un segno del cambio di stagione. Sebbene oggi questa professione sia meno comune, specialmente nelle città, il ricordo del venditore di pannocchie rimane vivo nella memoria collettiva e in alcune sagre, dove questo ruolo viene celebrato e a volte ricreato.

Il profumo che emana il pentolone ("caurara") in cui bollono le spighe riporta indietro nel tempo, all’infanzia e alla gestualità dei venditori ambulanti, che in grandi fogli di carta oleata le avvolgevano, ricoprendole di sale che fuoriusciva da un grande corno di bue, lo stesso utilizzato per insaporire "o’ per e o’ muss".

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Annamaria Parlato 28/08/2024 0

Gli ortaggi dell'estate sono i peperoni, nell'Agro nocerino-sarnese ​i migliori

​Assieme ai pomodori, alle zucchine e alle melanzane, è lui il vero ortaggio dell’estate, da consumare crudo o cotto, ripieno o grigliato. A cambiare sono il colore, che va dal giallo al rosso, la forma, il sapore e le modalità di conservazione. Il peperone è originario dell’America meridionale e la pianta ha fusto eretto verde con foglie lanceolate, fiori piccoli con corolla bianca e cinque lobi. I frutti, ossia i peperoni, sono bacche non succulente, peraltro carnose, cave internamente: vi sporgono dei setti membranosi ed una massa globosa di tessuto placentare a cui aderiscono i semi, pressoché arrotondati.

Commestibili, sono i frutti più saporiti dell’estate: ora cubici e tozzi per forma, ora globosi e compressi, altre volte allungati e appiattiti, o infine lunghi e sottili. Si consumano sia freschi che conservati ed il loro sapore può essere dolce o acre e pepato, per l’azione irritante del capsicolo. La prima differenza tra le varie tipologie di peperoni riguarda i colori: rosso, giallo e verde. Il peperone rosso ha polpa croccante e consistente e sapore deciso, ideale per preparare bruschette o contorni. Quello giallo è più carnoso e succoso, con un sapore più dolce e una maggiore tenerezza: perfetto per i peperoni in agrodolce o per il pollo con i peperoni. I peperoni verdi non sono invece nient’altro che gli esemplari non ancora pienamente maturati delle varianti rossa e gialla. Il gusto leggermente acidulo lo rende perfetto per le insalate, anche a crudo.

Il peperone è stato introdotto in Europa da Cristoforo Colombo che lo portò dalle Americhe col suo secondo viaggio, nel 1493. Gli agricoltori locali, probabilmente, selezionarono peperoni privi di piccantezza, da cui si è originato l'ecotipo "cazzone rosso e giallo" nell'Agro nocerino-sarnese. Fino a 40-50 anni fa, era tra le principali varietà di peperone che veniva coltivata prevalentemente nella zona. Poi, come molte altre cultivar antiche, ha subito gli effetti nocivi dell'avvento degli ibridi. L'epoca di coltivazione va da aprile a fine ottobre; la raccolta viene effettuata dalla fine di luglio a fine ottobre. Il peperone "Cazzone" è apprezzato per le sue proprietà organolettiche. Trova impiego in numerose preparazioni gastronomiche, imbottito, con la pasta e fritto.

Il peperone "Sassaniello", altra varietà tipica dell’Agro, è a forma di parallelepipedo di colore verde (frutto immaturo), rosso o giallo a maturazione, con l'estremità plurilobata. La coltivazione va sempre da aprile a fine ottobre e la raccolta viene effettuata da fine luglio a fine ottobre. In cucina si consuma per lo più grigliato, sott'olio, ripieno al forno o nella peperonata. Tra le numerose varietà di peperoni prettamente campani si ricordano anche il quadrato di Napoli o Nocera, il peperone corno di bue, il peperoncino verde di fiume e la papaccella napoletana.

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Annamaria Parlato 31/07/2024 0

Le dolcissime "nettarine bianche" nocerine sono alleate della prova costume

Il pesco è una pianta fruttifera appartenente alla famiglia delle Rosacee. Ha mole modesta, raggiunge al massimo i 4 metri d’altezza: ha rami divaricati e foglie lanceolate, seghettate e con breve picciolo, di colore verde più o meno chiaro. I fiori hanno 5 petali rosei e numerosissimi stami. I frutti o pesche sono drupe, di solito sferoidali, suddivise in superficie in due metà, quasi simmetriche, da un solco laterale che va dalla cavità peduncolare all’apice, quest’ultimo in alcune varietà umbonato: molto variabili, secondo le cultivar, appaiono inoltre la grossezza del frutto, il suo colorito, la fragranza della polpa.

Le pesche, di sapore gustoso e profumo gradevole, sono apprezzate sia fresche che secche, in sciroppi, in confetture o candite. In Italia, dove la coltivazione delle pesche è favorita dal clima e dalla natura del terreno di alcune regioni, si pratica questo tipo di coltura sin dall’antichità. Per l'arrivo delle pesche nella zona mediterranea si deve ringraziare Alessandro Magno. È stato lui, infatti, a portarle a Roma: ne era rimasto colpito mentre visitava i giardini di Dario III in Persia. I Romani per primi furono grandi consumatori di pesche, trasportandole dalla Persia nel 50 a.C.; in realtà, il pesco è originario della Cina, dove cresce spontaneo.

Le pesche sono il simbolo della stagione estiva, annoverano molte proprietà benefiche, sono alleate della forma fisica, per arrivare in piena forma alla prova costume. Oltre ad essere ipocaloriche e del tutto prive di grassi, hanno proprietà antiossidanti. Ne esistono diverse varietà: si va dalla pesca gialla a quella bianca, dalla tabacchiera alla nocepesca: maturano dalla fine di maggio alla fine di settembre. Nel territorio nocerino, in zona Starza, sono famose le nettarine bianche, caratterizzate dalla buccia liscia di color crema, tendente al verdognolo, senza la peluria tipica delle pesche comuni, e dalla polpa candida. Hanno un sapore dolce, aromatico e delicato e la polpa è morbida e succosa, ideale per essere consumata fresca. Richiedono tanta manodopera perché sono molto delicate, anche se la richiesta sul mercato è vastissima poiché si tratta di un prodotto di gran pregio. Tra esondazioni dei torrenti circostanti e la cementificazione, i suoli per la coltivazione si tanno riducendo sempre più, tant’è che i frutti rischiano l’estinzione.

Le nettarine possono essere mangiate da sole o in macedonia. Utilizzate in pasticceria per aromatizzare torte e semifreddi, sono ideali nella realizzazione di sorbetti e gelati. Nei piatti salati diventano un originale antipasto, ma rendono raffinati anche risotti e primi piatti di pasta ripiena. Se abbinate alle carni, soprattutto al maiale, regalano un tocco di freschezza e colore. Le pesche sono un ottimo alleato della circolazione e aiutano ad eliminare il mal di testa. Essendo ricche di acqua e fibre, sono indispensabili nelle diete ipocaloriche, in quanto hanno un’elevata capacità di stoppare la fame e saziare. Il colore della pesca ha ispirato molti pittori: si trovano pesche mature nei quadri di Caravaggio (1592), Monet (1866), Renoir (1880) e Van Gogh (1888).

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Annamaria Parlato 30/07/2024 0

Nell'Agro nocerino-sarnese si conservano i pomodori autoctoni per l'inverno

Il pomodoro secco è nato come risposta pratica e ingegnosa alla necessità di conservare lo stesso durante i mesi invernali, quando la disponibilità di quello fresco era limitata. L'usanza estiva dei pomodori secchi è una tradizione molto radicata in diverse regioni del sud Italia, specialmente in Campania, Sicilia, Calabria, Puglia e Basilicata. Questa pratica consiste nel conservare i pomodori attraverso l'essiccazione al sole, un metodo antico e naturale che permette di mantenere il gusto e le proprietà nutritive del frutto per lunghi periodi, senza necessità di refrigerazione.

Questo metodo ha radici antiche e si è sviluppato in diverse culture mediterranee, dove le condizioni climatiche erano ideali per l'essiccazione naturale degli alimenti. L'essiccazione è una delle più antiche tecniche di conservazione degli alimenti, utilizzata molto prima dell'invenzione della refrigerazione. Popoli antichi come gli Egizi, i Greci e i Romani essiccavano vari tipi di frutta e verdura per conservarli durante i periodi di scarsità.

Il pomodoro è originario delle Americhe e fu introdotto in Europa dai colonizzatori spagnoli nel XVI secolo. Inizialmente, il pomodoro era considerato una pianta ornamentale e solo gradualmente fu accettato come alimento. Nel sud Italia, il pomodoro divenne rapidamente una parte integrante della dieta locale, grazie al clima caldo e soleggiato che favoriva la coltivazione di questa pianta. Le comunità rurali del Meridione e di altre regioni mediterranee iniziarono ad adattare le tecniche di essiccazione già utilizzate per altre piante, come i fichi e le olive, applicandole ai pomodori. La tecnica dell'essiccazione al sole si sviluppò in modo particolare in regioni come la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania, dove il sole estivo è particolarmente intenso e l'umidità è bassa. Questo metodo permetteva alle famiglie di evitare gli sprechi, utilizzando tutto il raccolto di pomodori anche quando era abbondante.

Con il passare del tempo, il pomodoro secco divenne una parte importante della cucina tradizionale italiana e mediterranea. Le ricette e le tecniche di essiccazione si tramandavano di generazione in generazione, diventando parte del patrimonio culinario locale. La crescente popolarità della cucina mediterranea a livello internazionale ha portato il pomodoro secco sulle tavole di tutto il mondo, rendendolo un ingrediente apprezzato in molte ricette. L'essiccazione concentra il sapore dei pomodori, esaltandone la dolcezza e l'intensità. Questo rende i pomodori secchi un ingrediente versatile, utilizzabile in una vasta gamma di piatti, dai primi alle insalate, dalle salse ai contorni. I pomodori secchi mantengono gran parte dei nutrienti presenti nei pomodori freschi, come le vitamine A e C, il licopene e altri antiossidanti benefici per la salute. Sono facili da conservare e hanno una lunga durata, specialmente se immersi in olio d'oliva o in contenitori ermetici in un luogo fresco e buio.

Per la procedura tradizionale vengono scelti pomodori maturi, solitamente della varietà San Marzano o Piennolo, che sono tipici dell’Agro nocerino-sarnese, particolarmente carnosi e adatti all'essiccazione. I pomodori vengono lavati, tagliati a metà longitudinalmente e disposti su graticci o reti di essiccazione, con la parte tagliata rivolta verso l'alto. Le metà dei pomodori vengono cosparse con sale grosso, che aiuta a disidratarli e a preservarne il colore e il sapore. I pomodori vengono esposti al sole per diversi giorni, in genere da una settimana a dieci giorni, a seconda delle condizioni climatiche. Durante questo periodo, vengono ritirati ogni sera per proteggerli dall'umidità notturna e coperti con teli leggeri per preservarli da insetti e polvere.

Una volta completamente essiccati, i pomodori vengono raccolti e conservati in vasetti di vetro con olio d'oliva, eventualmente aromatizzati con aglio, peperoncino, origano o altre erbe aromatiche. Possono essere anche conservati in sacchetti di tela o contenitori ermetici, in luoghi freschi e asciutti. Sono estremamente versatili e possono essere utilizzati in vari modi in cucina: sono ideali come antipasto, spesso accompagnati da formaggi, olive e pane; aggiunti a pasta e risotti, per un tocco di sapore intenso e dolce; utilizzati in farciture di carne, pesce o verdure; nelle insalate, per un gusto deciso; tritati e usati come condimento per pizze, focacce o bruschette. Questa cibo tradizionale non solo celebra la stagionalità e la conservazione naturale degli alimenti, ma rappresenta anche un legame con la cultura e le radici gastronomiche delle regioni mediterranee.

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Annamaria Parlato 26/06/2024 0

Pomodoro San Marzano DOP, l'oro rosso dell'Agro nocerino-sarnese

La storia del pomodoro è affascinante e ricca di sviluppi interessanti nel corso dei secoli. Il pomodoro (Solanum lycopersicum) è originario delle regioni costiere dell'America Centrale, dove è stato coltivato per migliaia di anni dai popoli indigeni come gli Aztechi e i Maya. I primi esemplari furono portati in Europa dai conquistadores spagnoli nel XVI secolo. Inizialmente, furono accolti con sospetto e talvolta addirittura considerati velenosi, poiché appartenevano alla stessa famiglia delle piante velenose, come la belladonna. Nonostante i dubbi iniziali, il pomodoro alla fine si diffuse in tutta Europa e divenne parte integrante della cucina mediterranea, soprattutto in Italia. Nel XVIII secolo, la sua popolarità crebbe notevolmente.

Nel corso dei secoli, sono state sviluppate numerose varietà di pomodoro con diverse forme, dimensioni e colori. La coltivazione si è estesa a livello mondiale, diventando una delle colture più importanti e consumate al mondo. Oggi il pomodoro è un ingrediente fondamentale in molte cucine, utilizzato fresco, cotto, in salse, sughi, zuppe, insalate e molto altro. È anche la base per prodotti come il ketchup e il concentrato di pomodoro. Oltre al suo utilizzo culinario, il pomodoro è apprezzato per le sue proprietà nutrizionali. È ricco di vitamine, minerali e antiossidanti benefici per la salute.

Il San Marzano DOP è una varietà particolare di pomodoro, considerata tra le più pregiatе al mondo per il suo sapore dolce e la consistenza carnosa. Prende il nome dal Comune di San Marzano sul Sarno, nel territorio dell’Agro Nocerino-Sarnese, dove vi arrivò nel 1770 come dono del viceré del Perù al re di Napoli, attecchendovi in maniera ottimale. È coltivato oggi principalmente nelle province di Napoli, Salerno (l’intero territorio dei comuni di San Marzano sul Sarno, Scafati, San Valentino Torio, Baronissi, Fisciano, Mercato San Severino, Siano, Castel San Giorgio, Roccapiemonte, Nocera Superiore, Nocera Inferiore, Sarno, Pagani, Sant’Egidio del Monte Albino, Angri) e Avellino.

È un pomodoro a forma allungata, con polpa spessa e pochi semi. Ha un sapore dolce e aroma intenso, che lo rendono ideale per la preparazione di sughi, salse e conserve. Il marchio DOP (Denominazione di Origine Protetta) indica che il pomodoro San Marzano è coltivato, raccolto e trasformato secondo rigorosi standard nella sua zona di origine. Questo garantisce l'autenticità e la qualità del prodotto. È molto apprezzato nella cucina italiana tradizionale e campana, soprattutto per preparare il famoso ragù o la salsa di pomodoro San Marzano, che è la base di molti piatti, tra cui la pizza. Grazie alla sua eccellenza e alla crescente popolarità della cucina italiana nel mondo, il San Marzano DOP è diventato un ingrediente ricercato anche al di fuori dell'Italia. La produzione di San Marzano DOP è limitata e regolamentata per preservare la qualità e l'autenticità del prodotto. Le condizioni climatiche e il terreno vulcanico della regione contribuiscono alle caratteristiche distintive di questo pomodoro.

Ha una forma allungata e cilindrica, leggermente curvata, con una punta più appuntita rispetto ad altri pomodori. È generalmente più grande rispetto alla media dei pomodori comuni. La sua buccia è liscia, sottile e di un rosso intenso brillante, con sfumature arancioni quando completamente maturo. Il colore uniforme è un segno distintivo di qualità. È noto per il suo sapore dolce, con una leggera acidità che lo rende equilibrato e piacevole al palato. Questa peculiarità è dovuta alla concentrazione di zuccheri naturali nel frutto, che si sviluppano pienamente grazie alle condizioni climatiche e al terreno vulcanico della regione di provenienza. Ha un aroma intenso e caratteristico, che si sprigiona appena si affetta o si schiaccia il frutto. Questo aroma contribuisce alla sua capacità di migliorare e arricchire i piatti cui viene aggiunto.

Il pomodoro San Marzano è una buona fonte di vitamine e minerali essenziali. Contiene vitamina C, vitamina K, potassio e folati, che sono importanti per la salute generale dell'organismo. È ricco di antiossidanti naturali come il licopene, beta-carotene e flavonoidi. Il licopene in particolare è un potente antiossidante che può aiutare a proteggere le cellule dai danni causati dai radicali liberi, contribuendo così a ridurre il rischio di malattie croniche come le malattie cardiache e alcuni tipi di cancro. Il San Marzano fornisce vitamina A, che è essenziale per la salute degli occhi e può aiutare a prevenire problemi di vista legati all'età, come la degenerazione maculare. È una buona fonte di fibre alimentari, che sono importanti per la salute digestiva. Le fibre possono aiutare a migliorare la regolarità intestinale e a mantenere un sistema digestivo sano.

Il Consorzio di Tutela del Pomodoro San Marzano DOP, istituito nel 1999, è un'organizzazione che ha il compito di proteggere e promuovere il pomodoro San Marzano, garantendo autenticità, qualità e provenienza. Ecco alcuni punti chiave riguardo al suo ruolo e alle sue funzioni:

1. Scopo

Il Consorzio è creato per tutelare e valorizzare il pomodoro San Marzano DOP, assicurando che sia prodotto, trasformato e commercializzato secondo rigidi standard stabiliti;

2. Certificazione DOP

Il marchio DOP (Denominazione di Origine Protetta) è una certificazione europea che garantisce che il pomodoro San Marzano sia coltivato nelle specifiche zone geografiche designate nelle province di Napoli, Salerno e Avellino. Questa certificazione assicura che il pomodoro abbia caratteristiche uniche dovute alle condizioni pedoclimatiche della regione, come il terreno vulcanico del Vesuvio;

3. Normative e regolamenti

Il Consorzio stabilisce le regole e i regolamenti riguardanti la coltivazione, la raccolta, la lavorazione e la commercializzazione del pomodoro San Marzano DOP. Queste normative mirano a garantire che il prodotto mantenga le sue caratteristiche distintive e che il consumatore riceva un prodotto autentico e di alta qualità;

4. Monitoraggio e controllo

Il Consorzio monitora costantemente il rispetto delle normative da parte dei produttori e dei trasformatori autorizzati. Sono previsti controlli regolari per verificare la conformità del prodotto e per prevenire frodi o contraffazioni;

5. Promozione e valorizzazione

Oltre alla tutela, il Consorzio si impegna nella promozione del pomodoro San Marzano DOP a livello nazionale e internazionale. Questo include attività di marketing, partecipazione a fiere ed eventi gastronomici, collaborazioni con chef e ristoranti per promuovere l'utilizzo del pomodoro San Marzano nelle cucine di tutto il mondo;

6. Trasparenza e informazione

Il Consorzio fornisce informazioni dettagliate sul pomodoro San Marzano DOP, inclusi i suoi benefici nutrizionali, le modalità di utilizzo in cucina e le ultime novità riguardanti la produzione e il mercato.

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Il vero San Marzano DOP è ottenuto dalle varietà San Marzano 2 e KIROS: la prima è spesso considerata una versione migliorata del classico pomodoro San Marzano DOP, ha una forma allungata e cilindrica simile al San Marzano tradizionale, ma è stata sviluppata per avere una maggiore resistenza alle malattie e una resa migliore; la seconda è una varietà moderna che si distingue per il suo gusto dolce e la buccia sottile. È caratterizzata da un colore rosso brillante e una forma tonda o leggermente ovale. È spesso utilizzata sia fresca che cotta, in insalate, come base per salse o per il consumo diretto. La varietà Kiros è apprezzata per la sua resa elevata e la buona capacità di conservazione.

Ecco la ricetta classica per preparare gli spaghetti alla puttanesca, piatto tipico dell’area vesuviana e salernitana, ideale da consumarsi nel periodo estivo in quanto racchiude tutti i profumi della cucina mediterranea;

Ingredienti: 320 g di spaghetti (o pasta lunga a piacere); 400 g di pomodori pelati San Marzano DOP; 50 g di acciughe sott'olio; 50 g di olive nere denocciolate di Gaeta; 2 cucchiai di capperi sotto sale, sciacquati; 2 spicchi d'aglio, tritati finemente; peperoncino rosso secco (q.b.); olio extravergine d'oliva; sale q.b.; prezzemolo fresco tritato (opzionale, per guarnire).

Preparazione: Tritare finemente l'aglio, tagliare a metà le olive nere e sciacquare i capperi sotto acqua corrente per eliminare l'eccesso di sale. In una padella capiente, scaldare 2-3 cucchiai di olio extravergine d'oliva a fuoco medio. Aggiungere l'aglio tritato e il peperoncino (a piacere) e far soffriggere per qualche minuto, facendo attenzione a non farli bruciare. Inserire le acciughe sott'olio precedentemente scolate dal loro olio e fatte a pezzetti. Mescolare per far sciogliere le acciughe nel soffritto. Incorporare le olive nere tagliate a metà e i capperi sciacquati. Continuare a mescolare per amalgamare bene gli ingredienti.

Versare i pomodori pelati nella padella, schiacciandoli leggermente con una forchetta o un mestolo. Portare il sugo alla puttanesca a ebollizione, poi abbassare il fuoco e lasciar cuocere a fuoco medio-basso per circa 15-20 minuti, mescolando di tanto in tanto. Nel frattempo, cuocere gli spaghetti in abbondante acqua salata secondo le istruzioni sulla confezione, fino a quando sono al dente. Scolare gli spaghetti e trasferirli direttamente nella padella con il condimento alla puttanesca. Mescolare bene la pasta con il sugo, facendo in modo che si amalgami perfettamente. Servire gli spaghetti alla puttanesca caldi, guarnendo con prezzemolo fresco tritato se desiderato. Aggiungere un filo d'olio extravergine d'oliva a crudo a piacere per un sapore più intenso.

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Annamaria Parlato 18/06/2024 0

Lo street food dell'Agro nocerino-sarnese per eccellenza: 'o pere e 'o musso

Lo street food è una pratica culinaria diffusa in tutto il mondo ed oggi ha assunto anche valore di aggregazione sociale e riscoperta di antichi sapori, tipici di uno specifico territorio. In Campania, questo modo di mangiare ha una radicata storia e da Napoli si è irradiato su tutto il territorio regionale, con varie prelibatezze, preparate con prodotti di grande qualità. Su antichi trattati di ricette gastronomiche italiane, si legge che, dalla fine del settecento, i poveri bollivano i piedi e le teste dei bovini, poi li mangiavano accompagnati da salse, ottenendo pietanze che piacevano anche ai ricchi.

Anticamente, i piedi e le zampe dei bovini potevano essere consumati solo in strada, il venditore era chiamato “o carnacuttaro”, ossia il venditore di carni cotte. Da qui nasce l’usanza di consumare 'o pere e 'o musso, soprattutto nell’Agro nocerino-sarnese, in particolare a San Valentino Torio, sino ai paesi costieri, per la provincia di Salerno. Oggi i clienti possono acquistarlo in tutte le stagioni dell’anno anche presso rivenditori, tagliato in listarelle sottili, spesso viene accompagnato a pezzi di trippa cotta con olive, finocchi e lupini, nella carta oleata modellata come un “cuoppo” con il palmo della mano o in apposite vaschette di plastica, il tutto condito con sale e limone e talvolta un pizzico di peperoncino. Usato a volte tra le pietanze presenti nei banchetti nuziali, è cibo che fa tendenza.

Il prodotto rientra nella categoria “ready to eat” (reg. 2073/05) e consiste ('o musso) nella parte anteriore del cranio, comprendente il labbro superiore ed inferiore, le narici, la mascella, ancora ricoperti di pelle. 'O pere invece è costituito dalla porzione di piede compresa tra la prima e la terza falange, privata dello zoccolo, sempre con la pelle. La tecnica di lavorazione la si può dividere in due fasi principali: scottatura e depilazione, cottura e raffreddamento. Queste parti anatomiche vengono lavate, messe a mollo, scottate, depilate e poi per due o tre ore vengono cotte a 98 °C.

Una volta raffreddati, all’esterno i pezzetti si presentano di colore più o meno chiaro, si riconoscono le strutture cartilaginee traslucide, le strutture muscolari rosa scuro e al tatto non sono viscide. Il profumo è delicato, sa di carne cotta ed il sapore non è mai deciso, ma leggermente fresco. Ai sensi del Decreto Legislativo 537/92, ed ora registrati ai sensi del Reg. CE 853/04, gli stabilimenti per la produzione del prodotto a base di carne bovina sono tutti autorizzati.

Le modifiche al Reg. CE 853/04, apportate dal Reg. CE 1662/2006 del 6 novembre 2006, hanno introdotto delle novità positive nel settore, tanto che si è consentito di non scuoiare le teste dei vitelli, il muso, le labbra e le zampe dei bovini, in modo da facilitare la lavorazione ed il commercio anche al di fuori dei macelli. In Campania 'o pere e 'o musso resta e resterà il protagonista di feste, sagre e bancarelle estive. Un cibo povero ma squisito, irrorato di sale dall’ambulante, che da un lungo corno bucato all’estremità, con una gestualità che ricorda atavici riti, lo fa cadere copioso e lo spruzza di alcune profumate gocce di limone della Costiera Amalfitana.

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Annamaria Parlato 30/05/2024 0

Paese che vai, tradizione che trovi: a Sant'Egidio spicca il fusillo

Il fusillo è un tipo di pasta tradizionale italiana, caratterizzato dalla sua forma a spirale o elicoidale. La sua storia è affascinante e si intreccia con la tradizione e la cultura gastronomica italiana. Il nome deriva dal termine italiano "fuso", uno strumento utilizzato in passato per filare la lana. La forma a spirale del fusillo ricorda, infatti, il movimento del filo intorno al fuso. Questa connessione etimologica riflette l'antica tradizione artigianale legata alla produzione della pasta. L'origine dei fusilli risale probabilmente a secoli fa, quando la pasta era fatta a mano nelle case delle famiglie italiane. Le donne utilizzavano un ferro da maglia o un bastoncino per avvolgere piccole porzioni di pasta fresca, creando la caratteristica forma a voluta.

Questo formato è originario del Mezzogiorno, in particolare della Campania, Calabria e Sicilia. Ogni regione e persino ogni famiglia poteva avere la propria variante e metodo di preparazione. Tradizionalmente, i fusilli venivano fatti a mano, avvolgendo la pasta fresca attorno a un ferro sottile (ferretto) e poi facendola rotolare per creare la forma tipica. Questo processo artigianale richiedeva abilità e pazienza, e veniva tramandato di generazione in generazione.

Esistono diverse varianti di fusilli, tra cui i fusilli corti e quelli lunghi (fusilli lunghi bucati). I fusilli corti sono più comuni e versatili, mentre i lunghi vengono spesso utilizzati in preparazioni regionali specifiche. Grazie alla loro forma sono ideali per trattenere i sughi, rendendoli perfetti per una vasta gamma di piatti. Si sposano bene con sughi densi, come ragù di carne, pesto, salse a base di pomodoro e formaggi. Il fusillo è una pasta che non solo rappresenta un alimento base della cucina italiana, ma incarna anche una ricca storia di tradizione e artigianalità. Oggi, il fusillo continua a essere amato e apprezzato sia in Italia che nel resto del mondo, come simbolo della creatività e della passione italiana per la buona cucina.

Il fusillo sangiliano è una variante specifica del fusillo tradizionale, legata alla cultura gastronomica di Sant’Egidio del Monte Albino. Le donne del paese, in particolare, sono state custodi di questa tradizione, preparando la pasta a mano durante le festività e le occasioni speciali. La pasta ha una consistenza ruvida, che permette di trattenere meglio i sughi, l'impasto è fatto con semola di grano duro, acqua e uova fresche. La tecnica tradizionale prevede che pezzi di impasto vengano avvolti attorno a un ferretto, arrotolati e poi sfilati anche se lasciati lunghi. Questa tecnica richiede abilità e pratica, ed è spesso considerata un'arte.

Dopo la formatura, i fusilli possono essere lasciati ad asciugare all'aria per un periodo di tempo, variabile a seconda delle condizioni climatiche e della tradizione locale. Si narra che questo tipo di pasta ricordi i riccioli biondi di un valoroso e nobile soldato, di cui una donna del luogo si era perdutamente ed inutilmente innamorata. Carolina Campitelli e la sua famiglia (ben quattro generazioni) sono interpreti appassionati e custodi tenaci di questa consuetudine. Nel laboratorio con annesso punto vendita “Come Tradizione”, nei pressi del centro storico, hanno avviato un progetto che si sta rivelando vincente e convincente. Tagliolini, altro formato tipico di Sant’Egidio, pappardelle, ravioli, ogni tipologia è realizzata con meticolosità e amore.

Raccontaci di te, come sei arrivata ad aprire un micro-pastificio?

Sin da bambina, ho sempre avuto una grande passione per la cucina, trasmessa dalla mia mamma e dalla mia nonna. Passavo ore a guardarle mentre preparavano la pasta fatta a mano, un rituale che mi ha affascinato e ispirato. A Sant'Egidio si è sempre usato preparare la pasta in casa, soprattutto fusilli e tagliolini. Con il tempo, ho deciso di trasformare questa passione in un vero e proprio lavoro. Ho aperto il micro-pastificio "Come Tradizione" per portare avanti e valorizzare le antiche tradizioni della nostra comunità. Siamo il primo negozio e laboratorio con produzione di fusilli certificato a Sant'Egidio e tra i pochi pastifici in Italia a lavorare la pasta a mano all'uovo. La nostra missione è mantenere viva l'arte della pasta fatta a mano, offrendo un prodotto autentico e di alta qualità.

Come riesci a portare avanti la tua azienda, in una realtà piccola di paese?

La chiave è il legame con la comunità. Mi impegno quotidianamente a mantenere viva la tradizione e la qualità dei nostri prodotti, utilizzando ingredienti da fornitori locali e tecniche artigianali tramandate di generazione in generazione. Inoltre, il supporto dei miei concittadini è fondamentale: loro credono nella mia attività e contribuiscono a diffondere la nostra pasta fatta a mano anche al di fuori del paese, arrivando oltre regione e, con grande soddisfazione, anche oltre i confini italiani.

Sant'Egidio ha una lunga tradizione per quanto riguarda la pasta fatta a mano. Tu cosa hai portato nella tua bottega?

Il rispetto per le antiche ricette, ma anche una visione fresca e innovativa. Oltre ai classici formati di pasta, come i fusilli e i tagliolini, offriamo varianti colorate e gustose, come quelle con spinaci, zucca, barbabietola e pomodoro. Ci divertiamo a sperimentare e a proporre sempre qualcosa di diverso. Ogni prodotto è realizzato con la massima cura e dedizione, per garantire un'esperienza autentica e indimenticabile.

Quali sono i formati di pasta più richiesti?

I nostri clienti apprezzano molto i fusilli sangiliani e i tagliolini all'uovo, che sono parte integrante della nostra tradizione. Ma anche i ravioli fatti a mano stanno riscuotendo un grande successo, grazie alle farciture gustose e genuine. Ogni formato di pasta ha il suo pubblico affezionato e siamo felici di soddisfare i gusti di tutti.

Come tradizione è solo pasta o si possono trovare anche altri prodotti tipici?

Oltre alla pasta, proponiamo altri prodotti tipici della zona. Tra questi, ci sono il pane casareccio, le conserve fatte in casa e marmellate artigianali, oltre all'ottimo vino delle cantine locali. Vogliamo offrire ai nostri clienti un'esperienza completa, che li faccia sentire parte della nostra cultura e delle nostre tradizioni culinarie.

Puoi parlarci del Progetto "Festa del Fusillo Sangiliano"?

E' un evento che stiamo organizzando per celebrare la nostra pasta fatta a mano e la tradizione che rappresenta. Sarà la prima edizione di una festa che durerà 4/5 giorni, coinvolgendo ristoranti locali e aziende produttrici del territorio. L'obiettivo è valorizzare il fusillo sangiliano, preparato in casa da generazioni, e far riscoprire a tutti il sapore autentico di questo prodotto unico.

Quanto si sta impegnando il Comune nella promozione del fusillo? O meglio, dal passato ad oggi quali avanzamenti ci sono stati?

Il Comune ha sempre sostenuto le tradizioni locali e negli ultimi anni ha intensificato gli sforzi per promuovere il fusillo sangiliano. Eventi e collaborazioni con produttori locali hanno contribuito a far conoscere questa eccellenza al di fuori dei confini del nostro paese. Grazie a queste iniziative, il fusillo sta vivendo una nuova primavera, attirando l'attenzione di appassionati e buongustai.

Tagliolini e fusilli sono più buoni con sughi di mare o terra? Ci suggeriresti una ricetta al volo?

Entrambi i formati si prestano a diverse interpretazioni, sia con sughi di mare che di terra. Personalmente, amo i tagliolini all'uovo con un sugo di vongole e limone, leggero e profumato. Per i fusilli, invece, consiglio un classico ragù di carne mista, ricco e saporito: un piatto tradizionale, ma sempre gradito. Una ricetta al volo? Tagliolini con vongole: in una padella, soffriggete aglio e peperoncino, aggiungete le vongole e sfumate con vino bianco. Cuocete i tagliolini, saltateli nel sugo e completate con una grattugiata di scorza di limone.

Altri progetti nel cassetto?

Molti! Uno dei prossimi obiettivi è ampliare la gamma dei prodotti, prestissimo introdurremo un nuovo formato di pasta e magari anche qualche specialità locale. Inoltre, stiamo organizzando dei corsi per trasmettere le tecniche della pasta fatta a mano e coinvolgere ancora di più la comunità. Ma, per ora, il focus è sulla "Festa del Fusillo Sangiliano" e sulla continua ricerca della qualità e della tradizione.

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