Da Nuceria Paganorum all'araldica, la noce è alimento nobile nell'Agro

I comuni di Sant'Egidio, Pagani, Nocera Superiore e Inferiore hanno un albero nel loro stemma

Annamaria Parlato 19/10/2024 0

Nocera dei Pagani, o Nuceria Paganorum, era il nome di una civitas esistita tra il XVI secolo e il 1806, comprendente l'attuale territorio di cinque comuni: Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Pagani, Sant'Egidio del Monte Albino e Corbara. Questo territorio faceva parte dell'antica Nuceria Alfaterna e in passato aveva dominato la piana del Sarno, arrivando fino a Stabia e Pompei.

Il nome "Nocera dei Pagani" appare per la prima volta nel XVI secolo, legato alla famiglia Pagano, signori del borgo medievale di Cortimpiano (oggi Pagani). La crescente importanza della famiglia portò al cambiamento del nome da Nocera dei Cristiani a Nocera dei Pagani. La civitas di Nocera dei Pagani era divisa in due dipartimenti: Nocera Soprana, comprendente i casali che avrebbero dato origine a Nocera Inferiore e Nocera Superiore, e Nocera Sottana, composta dalle università di Sant'Egidio, Pagani e Corbara.

Queste università (equivalenti ai Comuni odierni) godevano di autonomia politica ed economica, con sindaci, parlamenti e magistrati propri. Ogni anno, in agosto, gli abitanti maschi maggiorenni eleggevano in assemblea un sindaco e alcuni membri, equiparabili agli attuali assessori. Nocera Sottana, inoltre, eleggeva un sindaco universale che, insieme ai due sindaci universali di Nocera Soprana, formava un triumvirato responsabile delle questioni comuni alla confederazione. Ciascuna università possedeva un proprio demanio, costituito da case, terre e boschi, oltre a un demanio comune alla città, composto principalmente da selve che occupavano gran parte del territorio.

Nelle selve il noce era la cultivar predominante assieme alla quercia, tanto da assumere una certa importanza sia nell’economia locale sia nella storia dei comuni, attraverso l’araldica. A Sant’Egidio del Monte Albino, a partire dal XVI secolo, avveniva l’elezione del Sindaco, dopo il saluto del rappresentante del Governatore della Città di Nocera, dinnanzi alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, col sistema delle fave e delle noci deposte in un sacchetto sul sagrato dell’Abbazia di Santa Maria Maddalena in Armillis.

Lo stemma di Nocera dei Pagani ha una lunga e complessa storia legata all'evoluzione del territorio e delle sue comunità. Il simbolo principale è un albero di noce sradicato, che rappresenta un tipico esempio di "stemma parlante", dove l'elemento araldico richiama il nome del luogo o della famiglia, in questo caso il noce (latino: nux) e Nocera. Tuttavia, il nome Nocera ha un'etimologia diversa, legata probabilmente all'antico nome della città romana Nuceria Alfaterna. L'uso dello stemma con l'albero di noce risale ufficialmente al XVI secolo, ma la sua origine è più antica. Lo stemma, infatti, deriverebbe dal blasone della famiglia dei Conti di Nocera, un'importante casata locale nata dai Dauferidi nel XI secolo, che governava su vaste porzioni del territorio. La rappresentazione dell'albero di noce nello stemma divenne quindi il simbolo identificativo della città di Nocera dei Pagani.

Esistono diverse versioni dello stemma, riportate da vari autori. Il De' Santi, nella sua opera "Memorie delle famiglie nocerine", descrive lo stemma originale come uno scudo dorato con un albero di noce al naturale. Tuttavia, una versione più diffusa vede lo stemma su fondo azzurro, con frutti d'oro pendenti dai rami. Un'altra versione dello stemma, riportata da Monsignor Lunadoro e dal Maruggi, raffigura una donna in abito purpureo che ferisce con un ferro un giovane addormentato in un letto, richiamando un racconto del greco Dositeo, riportato da Plutarco, sulle origini di Nocera. Questa versione è meno certa storicamente.

Lo stemma di Nocera dei Pagani si è poi evoluto, dando origine agli stemmi attuali delle città nate dalla suddivisione di Nocera dei Pagani, tutti con l’albero del noce: Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Pagani e Sant'Egidio. Rappresentazioni scultoree dello stemma con il noce si trovano in vari luoghi storici del territorio, tra cui edifici religiosi e civili a Nocera Inferiore, Nocera Superiore e Pagani, come la chiesa del Corpo di Cristo, il Convento di Santa Maria degli Angeli e il campanile del Convento di Sant'Antonio.

Oggi la noce è un prodotto largamente diffuso sul territorio dell’Agro e la varietà utilizzata è quella Sorrento. Conosciuta per la qualità del suo frutto e per le sue eccellenti caratteristiche organolettiche, la Sorrento ha una lunga tradizione di coltivazione in Campania, tanto da essere diventata un simbolo dell'agricoltura locale. Ha una forma ovale allungata, con un guscio sottile ma resistente, che la rende facile da rompere. La dimensione è generalmente media, ma il frutto risulta di alta qualità. Il guscio è chiaro, liscio e uniforme, particolarmente apprezzato per la facilità con cui può essere aperto. Il gheriglio (la parte commestibile) è di colore chiaro, di forma regolare e si stacca facilmente dal guscio. Ha un sapore delicato, leggermente dolce e molto piacevole, ricco di oli essenziali che conferiscono un aroma caratteristico.

Il gheriglio di questa varietà è particolarmente apprezzato perché si presenta integro dopo la rottura del guscio, una caratteristica importante per il consumo diretto e l’uso culinario. Questa varietà è molto apprezzata sia per il consumo diretto, sia nell’industria dolciaria e gastronomica. Le noci Sorrento vengono utilizzate nella preparazione di dolci tradizionali campani, come le torte di noci, ma anche in liquori e condimenti. Grazie al suo sapore delicato, la noce Sorrento si presta bene anche a essere abbinata a formaggi, insalate e piatti a base di carne.

Le noci erano spesso consumate al naturale, sia fresche appena raccolte (periodo settembre-ottobre), sia dopo l’essiccazione. La noce fresca era più morbida e dal sapore delicato, mentre quella secca aveva una consistenza più croccante e poteva essere conservata per lunghi periodi, soprattutto durante i mesi invernali quando gli altri alimenti freschi scarseggiavano. La capacità di conservarsi a lungo le rendeva una risorsa importante nelle dispense delle famiglie. Le noci, oltre ad essere apprezzate per il loro valore alimentare, erano un tempo protagoniste di vari giochi tradizionali praticati dai bambini, soprattutto in contesti rurali.

Il noce ha una presenza significativa nella letteratura e nella poesia di varie epoche, spesso simbolo di saggezza, fertilità, mistero e longevità. Esempio significativo le poesie di Giovanni Pascoli, incluse nella raccolta "Primi Poemetti", in cui il noce diventa simbolo di protezione familiare e rifugio sicuro sotto cui la vita continua il suo ciclo naturale. Le poesie riflettono il tema pascoliano della "memoria dell'infanzia" e del ritorno alle radici, dove il noce è testimone delle vicende umane e parte integrante di un paesaggio che è al tempo stesso fisico e interiore.

Grazie alla sua figura imponente, il noce è stato associato anche a leggende e miti, in particolare quelli legati alla magia e alla stregoneria. Sempre in Campania, il celebre "Noce di Benevento" è un simbolo leggendario legato a storie di streghe e riti esoterici. Le streghe si radunavano, secondo la tradizione, sotto l'ombra di un grande noce per celebrare i loro sabba.

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Annamaria Parlato 07/09/2024

Successo oltre ogni aspettativa per la Festa del Fusillo di Sant'Egidio

Lo scorso fine settimana (29-30-31-1) si è tenuta la tanto attesa Festa del Fusillo di Sant'Egidio del Monte Albino, un evento ideato dal micro-pastificio "Come Tradizione" che ha superato di gran lunga le aspettative e ha lasciato un segno indelebile nei cuori di tutti i partecipanti. Organizzata nel suggestivo borgo di Sant'Egidio, la manifestazione ha celebrato non solo il fusillo sangiliano De.Co., simbolo della tradizione culinaria locale, ma anche l’importanza del cibo come elemento di unione e convivialità.

L'afflusso è stato costante, con famiglie, gruppi di amici e visitatori giunti anche dalle città limitrofe. L’atmosfera era vivace e gioiosa, il paese si è trasformato in un crocevia di profumi, colori e sapori, che hanno esaltato la cultura gastronomica del posto. Quattro serate in altrettanti ristoranti locali (Sce Sce, Al Quadrato, Borchiotto, 'O Ciardin) con i rispettivi menù degustazione in cui il fusillo è stato esaltato sia in cucina (fusillo con corbarino e scaglie di provolone del monaco, fusillo con pomodorino giallo, guanciale croccante e scaglie di ricotta salata, fusillo con salsiccia e funghi porcini, fusillo cacio e pepe con arance di Sant'Egidio), sia attraverso i laboratori didattici per apprendere l'antica arte, dedicati a grandi e piccoli tenuti da Carolina Campitelli e sua madre, titolari del pastificio.

La tradizione del fusillo sangiliano potrebbe derivare dall’influenza del Cilento, da storie legate ai ricci di un cavaliere, o essere un omaggio alla Madonna delle Grazie. Sicuramente, però, questa usanza di fare la pasta in casa, tramandata di generazione in generazione, è una parte viva della cultura autoctona. La Festa si è rivelata molto più di una semplice celebrazione gastronomica: un'occasione di incontro, di riscoperta delle tradizioni e di valorizzazione del territorio.

Il successo di questa edizione lascia presagire un futuro ancora più brillante per un evento che, ormai, è diventato un appuntamento imperdibile per tutti gli amanti della buona cucina e delle tradizioni gastronomiche. Non resta che aspettare la prossima edizione, con la certezza che sarà all'altezza, se non superiore, del successo di quest'anno!

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Annamaria Parlato 18/04/2025

Sabato Santo nell'Agro: carciofi alla brace, soppressata e pizza di maccheroni

È un rito che unisce i territori dalle Nocera a Pagani, da San Marzano a Scafati, fino a Sant’Egidio del Monte Albino. Un gesto collettivo che sa di attesa, di pausa, di confine tra la penitenza della Quaresima e l’abbondanza della Pasqua. Nell’Agro Nocerino-Sarnese, il Sabato Santo ha un ritmo e un odore inconfondibile: le strade si riempiono di braci, ferri anneriti, chiacchiere e mani che girano carciofi sulla brace viva, mentre in casa si affettano soppressate paesane e si controlla la cottura della pizza di maccheroni nel forno a legna.

Tutto poi termina in chiesa, nel cuore della notte, quando si celebra il rito dello scioglimento della Gloria: a mezzanotte esatta, nella penombra della navata, si abbassa il drappeggio posto sul Cristo in gloria, tirato giù dai confratelli in un gesto antico e teatrale. Una nube densa d’incenso si solleva e avvolge i banchi, mentre le campane iniziano a suonare a festa, gioiose, piene, squillanti: Cristo è risorto, il silenzio della Passione è finito. È il segnale atteso da tutti, il momento in cui il dolore si scioglie nella speranza e la tavola si può finalmente aprire alla festa.

Tornati a casa, ci si preparare ad assaggiare tutte le pietanze che la tavola di Pasqua, l’indomani, avrà da offrire. In ogni caso, i protagonisti della vigilia sono loro, i carciofi arrostiti, venduti nei locali ma anche per strada, da ambulanti con griglie improvvisate appoggiate su mattoni o bidoni tagliati a metà, e soprattutto regalati ad amici, vicini e parenti: se ne preparano a decine, disposti nelle teglie o incartati nella stagnola, privati del gambo e conditi con prezzemolo fresco e aglio tritato, olio extravergine profumato, pepe e talvolta qualche pezzetto di pancetta o strutto che, sciogliendosi, penetra fino al cuore tenerissimo. Si mangiano con le mani, sbucciandoli foglia dopo foglia, poggiandoli su una fetta di pane casereccio che si impregna dei suoi umori caldi, amari e aromatici, raccogliendo tutto il gusto della brace e delle erbe.

Accanto, la soppressata affettata spessa, con il pepe in grani e il grasso che si scioglie sotto le dita, il tòrtano o casatiello, e infine la pizza di maccheroni – detta anche pastiera salata – fatta con bucatini spezzati, uova, formaggi, salame e pepe, spesso ricoperta dalle sciuanelle, rettangoli di polenta fritta che venivano poggiati in superficie per evitare che nel forno a legna la crosta si bruciasse.

Un pasto che unisce le case, i cortili, le famiglie, consumato in piedi o su sedie improvvisate, col fumo che si attacca ai vestiti e il profumo che avvolge le vie. Il carciofo, del resto, ha una storia antica: coltivato fin dagli Egizi, veniva apprezzato dai Greci e dai Romani – Plinio il Vecchio ne lodava le proprietà depurative – ed è diventato col tempo il simbolo della cucina povera e saporita del Sud. In Campania, tra la Piana del Sele e il Vesuvio, crescono alcune varietà particolarmente tenere e prive di spine, perfette per essere arrostite, ed è proprio qui, nell’Agro, che il rito del carciofo sulla brace si è trasformato in identità.

Il Sabato Santo, giornata di silenzio e preparazione alla Pasqua, diventa così anche una festa dei sensi. Un pasto che non è ancora il trionfo della carne e dei dolci, ma è già un segnale di apertura, un momento conviviale che si consuma spesso all’aperto, tra cortili, terrazze e giardini, mentre il sentore di affumicato richiama i vicini e i passanti. Un rito che unisce generazioni, che racconta la cultura del poco ma buono, della condivisione semplice, della memoria che si mangia con le mani. E che, nell’Agro Nocerino-Sarnese, ogni anno si rinnova, come un piccolo miracolo profano di primavera.

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Annamaria Parlato 27/04/2024

Violetto e Pignatella, i carciofi di Castellammare e dell'Agro Nocerino-Sarnese

Il carciofo di Castellammare, chiamato anche “violetto” o “carciofo di Schito”, si presenta come privo di spine, tenerissimo, con le foglie esterne che vanno a degradare dal rosa al viola, con grandi infiorescenze rotonde. La sua origine affonda le radici nell’epoca romana: una frazione di Castellammare di Stabia, Schito, era considerata al tempo particolarmente vocata all’orticoltura. Prova ne è che la zona, non lontana da Pompei, era identificata con il toponimo “orti di Schito”. Questo carciofo ha una maturazione molto precoce, infatti si raccoglie nel periodo compreso tra febbraio e maggio, anche se a marzo iniziano a spuntare le cosiddette “mammarelle”, ossia i capolini centrali. In epoca borbonica, era soprannominato “primaticcio”, come si evince da svariati manuali di agricoltura.

Il carciofo Pignatella assume questo buffa denominazione per la particolare tecnica di coltivazione. E’ tipico dell’Agro Nocerino-Sarnese e dell’area vesuviana. La “pignatella” è un recipiente di terracotta, simile ad una tazza senza il manico, che si utilizza come copri-capolino, dal momento della sua nascita sino alla raccolta, per proteggerlo dai violenti raggi del sole e dagli agenti atmosferici. Questa tecnica è descritta perfino da Plinio il Vecchio nei suoi scritti ed era in voga nell’antica Pompei. La coltivazione di questo carciofo è spesso a conduzione familiare, ricopre un arco temporale che va da marzo sino alla prima decade di giugno.

Nel periodo pasquale, questo carciofo assume delle fantastiche sfumature violaceo-rossastre e le brattee diventano particolarmente tenere. Con i piccoli capolini si producono meravigliosi sott'oli, mentre tutto il carciofo si presta per la preparazione di parmigiane, carpacci o per essere arrostito. Ha un legame forte con la tradizione della Pasqua, che normalmente coincide con il periodo centrale della produzione. In particolare, il carciofo arrostito sulla brace è il piatto simbolo del sabato santo e del lunedì di Pasquetta di tutte le famiglie del territorio. Si usa il carciofo intero, posto direttamente nella brace di una fornacella o camino. Quando è cotto (dopo circa mezz’ora), viene ripulito delle foglie bruciacchiate, condito con sale, pepe, prezzemolo, aglio fresco e olio, poi adagiato su una fetta di pane casereccio e consumato in abbinamento agli insaccati della tradizione contadina (in particolare dei Monti Lattari): salame, soppressata e salsiccia secca.

Le altre varietà campane

Il carciofo di Procida, la più piccola delle isole del Golfo di Napoli, è del tipo romanesco, con capolini primari globosi e grossi di colore verde chiaro e con capolini secondari di color viola e di dimensioni inferiori. La pianta è robusta ed è capace di produrre capolini anche del terzo, quarto e quinto ordine. La tradizione vuole che i capolini del secondo ordine, secondo una ricetta tradizionale, siano utilizzati per la preparazione di vasetti di sott'oli. I capolini vengono sbollentati in acqua, aceto di vino bianco e sale, e poi conditi con olio extravergine, aglio, origano e peperoncino.

Il Carciofo di Paestum, o “tondo di Paestum”, ha forma subsferica, aroma delicato e straordinarie proprietà nutrizionali. I capolini sono molto compatti, le spine sono assenti e la precocità della maturazione lo rendono unico, tanto da caratterizzare, con le enormi distese, il paesaggio della Piana del Sele. La maturazione precoce poi lo rende competitivo nei mercati ortofrutticoli, in quanto può esser venduto per primo, rispetto alle varietà romanesche. Ha proprietà benefiche e disintossicanti, dovute al suo contenuto in sali e vitamine. E’ tra gli ingredienti più usati nella cucina cilentana, lo si trova in delicate creme, ideale condimento per la pasta fatta a mano, sulle pizze e nei rustici.

A Pertosa, in provincia di Salerno, il carciofo in dialetto si chiama “carcioffola”. La produzione del carciofo bianco va da maggio a giugno, sino alla raccolta degli esemplari più piccoli, che vengono impiegati nella preparazione di conserve. Non ha spine, è rotondo e ha un colore particolarissimo, tendente all’argento, le infiorescenze sono forate al centro. La lavorazione è manuale e a conduzione familiare, in terreni di piccole dimensioni. Anticamente, le foglie di questo carciofo erano considerate merce di scambio, poiché si capì che potevano essere un ottimo integratore nella dieta delle mucche da latte. Quindi, gli orticoltori di Pertosa, in cambio di letame, usato come concime, le cedevano agli allevatori.

Intorno al 1840, nella cittadina di Pietrelcina, in provincia di Benevento, un prefetto originario di Bari introdusse la coltivazione del carciofo. Ancora oggi si richiede un lavoro umano notevole per la sua produzione, che in genere avviene in piccoli appezzamenti di terra. In estate si tagliano gli steli, in autunno c’è la cosiddetta “scarducciatura”, ossia l’eliminazione dei germogli superflui, che viene ripetuta anche in primavera, quando i cardi appena estirpati vengono adagiati sulle infiorescenze immature, per preservarle dal calore dei raggi solari. A maggio, ogni anno nel paese si celebra una tradizionale sagra.

Il nome Capuanella è un vezzeggiativo e deriva appunto dalla città di Capua, in provincia di Caserta, zona rinomata per la produzione di quest’ortaggio. Il carciofo Capuanella in genere si presenta di colore verde scuro, matura tra fine marzo ed inizio aprile ed è ricco di proprietà organolettiche. Appartenente alla famiglia dei carciofi romaneschi, ha foglie molto fitte e raccolte. E’ rinomato per esser tenero e per esser degustato arrostito, in occasione delle feste.

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