Le dolcissime "nettarine bianche" nocerine sono alleate della prova costume
Seppur in via di estinzione, mangiarne in gran quantità aiuta a sfoggiare in spiaggia un fisico perfetto
Annamaria Parlato 31/07/2024 0
Il pesco è una pianta fruttifera appartenente alla famiglia delle Rosacee. Ha mole modesta, raggiunge al massimo i 4 metri d’altezza: ha rami divaricati e foglie lanceolate, seghettate e con breve picciolo, di colore verde più o meno chiaro. I fiori hanno 5 petali rosei e numerosissimi stami. I frutti o pesche sono drupe, di solito sferoidali, suddivise in superficie in due metà, quasi simmetriche, da un solco laterale che va dalla cavità peduncolare all’apice, quest’ultimo in alcune varietà umbonato: molto variabili, secondo le cultivar, appaiono inoltre la grossezza del frutto, il suo colorito, la fragranza della polpa.
Le pesche, di sapore gustoso e profumo gradevole, sono apprezzate sia fresche che secche, in sciroppi, in confetture o candite. In Italia, dove la coltivazione delle pesche è favorita dal clima e dalla natura del terreno di alcune regioni, si pratica questo tipo di coltura sin dall’antichità. Per l'arrivo delle pesche nella zona mediterranea si deve ringraziare Alessandro Magno. È stato lui, infatti, a portarle a Roma: ne era rimasto colpito mentre visitava i giardini di Dario III in Persia. I Romani per primi furono grandi consumatori di pesche, trasportandole dalla Persia nel 50 a.C.; in realtà, il pesco è originario della Cina, dove cresce spontaneo.
Le pesche sono il simbolo della stagione estiva, annoverano molte proprietà benefiche, sono alleate della forma fisica, per arrivare in piena forma alla prova costume. Oltre ad essere ipocaloriche e del tutto prive di grassi, hanno proprietà antiossidanti. Ne esistono diverse varietà: si va dalla pesca gialla a quella bianca, dalla tabacchiera alla nocepesca: maturano dalla fine di maggio alla fine di settembre. Nel territorio nocerino, in zona Starza, sono famose le nettarine bianche, caratterizzate dalla buccia liscia di color crema, tendente al verdognolo, senza la peluria tipica delle pesche comuni, e dalla polpa candida. Hanno un sapore dolce, aromatico e delicato e la polpa è morbida e succosa, ideale per essere consumata fresca. Richiedono tanta manodopera perché sono molto delicate, anche se la richiesta sul mercato è vastissima poiché si tratta di un prodotto di gran pregio. Tra esondazioni dei torrenti circostanti e la cementificazione, i suoli per la coltivazione si tanno riducendo sempre più, tant’è che i frutti rischiano l’estinzione.
Le nettarine possono essere mangiate da sole o in macedonia. Utilizzate in pasticceria per aromatizzare torte e semifreddi, sono ideali nella realizzazione di sorbetti e gelati. Nei piatti salati diventano un originale antipasto, ma rendono raffinati anche risotti e primi piatti di pasta ripiena. Se abbinate alle carni, soprattutto al maiale, regalano un tocco di freschezza e colore. Le pesche sono un ottimo alleato della circolazione e aiutano ad eliminare il mal di testa. Essendo ricche di acqua e fibre, sono indispensabili nelle diete ipocaloriche, in quanto hanno un’elevata capacità di stoppare la fame e saziare. Il colore della pesca ha ispirato molti pittori: si trovano pesche mature nei quadri di Caravaggio (1592), Monet (1866), Renoir (1880) e Van Gogh (1888).
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Annamaria Parlato 26/12/2024
La minestra maritata dell'Agro nocerino è un "cult" di Santo Stefano
La minestra maritata, o “pignato grasso”, è uno dei piatti simbolo della tradizione gastronomica campana e in particolare dell’Agro nocerino-sarnese, un autentico tesoro culinario che racchiude storia, cultura e sapori unici. Questo piatto, il cui nome letteralmente significa “minestra sposata”, prende il nome dall’armoniosa combinazione di carne e verdure, un connubio che si rifà all’antica arte della cucina contadina. La storia è lunga e affascinante, con radici che risalgono all’epoca romana.
La ricetta originale deriverebbe da un piatto noto come “minutal”, una preparazione a base di carne e verdure diffusa nell’antica Roma. Durante il periodo aragonese a Napoli, il piatto subì l’influenza dell’olla podrida spagnola, un ricco stufato di carne e legumi che condivideva la filosofia di combinare ingredienti diversi per creare un piatto unico e sostanzioso. Arricchitasi di profumi e tecniche culinarie importate dagli spagnoli, la minestra maritata divenne più raffinata e si consolidò come elemento distintivo della cucina campana.
Questo pasto unico era originariamente preparato per le occasioni speciali, in particolare per Natale e Pasqua, quando le famiglie si riunivano per celebrare le festività. La sua complessità e ricchezza di ingredienti riflettevano l’abbondanza e il calore delle tradizioni familiari. La minestra maritata ha trovato spazio persino nella letteratura tra i secoli XIII e XVIII (Pulci, Cervantes, Latini, Casanova), contribuendo a raccontare la cultura e le tradizioni campane. Anche in testi meno noti è stata citata come esempio di come il cibo possa riflettere il legame profondo tra terra, tradizioni e memoria collettiva.
Il cuore della ricetta risiede nella perfetta unione tra carne e verdure, che prevede una selezione di tagli specifici (maiale e parti grasse, manzo, pollo o gallina) e un assortimento di ortaggi a foglia, ognuno dei quali contribuisce a creare un’esplosione di sapori. Ogni tipo di carne viene cotto lentamente per ottenere un brodo ricco e saporito, che diventa la base del piatto. Le verdure variano a seconda della stagione e della disponibilità, ma la tradizione dell’Agro privilegia: scarola, bietola, cicoria, catalogna, broccoletti, verza, torzella (una varietà antica di cavolo tipica della Campania, dal sapore intenso e leggermente amarognolo).
Queste verdure, accuratamente lavate e lessate, vengono unite alla carne per completare la minestra. Le carni si cuociono in abbondante acqua con cipolla, sedano e carota, un po' di lardo, formando un brodo ricco e profumato. Le verdure sono aggiunte al liquido di cottura delle carne per preservare i loro sapori distinti. Il tutto viene fatto sobbollire, per consentire ai sapori di amalgamarsi assieme a qualche scorza di parmigiano. Un filo d’olio extravergine d’oliva e una spolverata di formaggio e pepe a completano il piatto. La minestra è spesso accompagnata da pane raffermo tostato o dai tipici scagliuozzi di polenta fritta.
Oggi, è ancora un piatto molto amato, soprattutto nelle famiglie che custodiscono gelosamente le antiche ricette tramandate di generazione in generazione. Molti ristoranti e trattorie dell’Agro propongono questa pietanza nei loro menù, permettendo anche ai turisti di scoprire un autentico sapore della tradizione. Pur essendo profondamente legata al territorio campano, la minestra maritata ha conquistato il palato di molti oltre i confini regionali. Alcune varianti moderne includono ingredienti innovativi o semplificano la ricetta per adattarsi ai ritmi della vita contemporanea, ma il cuore del piatto rimane invariato: l’equilibrio perfetto tra carne e verdure.
Per accompagnare la minestra, è consigliabile scegliere un vino campano che ne esalti i sapori intensi senza sovrastarli. Tra le opzioni migliori: Aglianico del Taburno, un rosso strutturato e ricco di tannini che si sposa perfettamente con la complessità del piatto, bilanciando la grassezza della carne e la mineralità delle verdure; Piedirosso, meno tannico dell’Aglianico, ma con una buona acidità e note fruttate che si combinano bene con il sapore rustico e leggermente amarognolo delle verdure; Greco di Tufo per chi preferisce un vino bianco, che con la sua freschezza e le sue note minerali può offrire un interessante contrasto ai sapori ricchi della minestra maritata.
Annamaria Parlato 28/10/2024
Sant'Egidio, i piatti dell'osteria 'O Ciardin nutrono anche l'anima
Da un oste ci si può aspettare molto più di un semplice servizio al tavolo. Un oste è, prima di tutto, un padrone di casa, un anfitrione capace di creare un'atmosfera calorosa e accogliente, che fa sentire ogni cliente come un ospite speciale. È quella figura che sa mettere a proprio agio, pronto a spiegare ogni piatto del menù, a raccontare l’origine degli ingredienti, le storie che stanno dietro le ricette, persino qualche aneddoto sul locale e sui clienti abituali.
L’oste ideale conosce a fondo il territorio e i suoi sapori; è appassionato del proprio mestiere e ama condividere questa passione con chiunque entri nel locale. Sa consigliare il vino giusto per ogni portata, spiegare perché quella ricetta si prepara in un certo modo, raccontare la stagionalità e la provenienza degli ingredienti. Spesso, questo fa la differenza nell’esperienza del cliente, che non vive solo un pasto ma un piccolo viaggio culturale attraverso la tradizione e la storia del luogo.
Inoltre, l'oste sa quando fare un passo indietro per lasciare che i clienti si godano il loro momento di tranquillità e quando invece unirsi al tavolo per uno scambio di battute o due chiacchiere. È una figura che rappresenta l'autenticità, qualcuno che non ha paura di mostrarsi genuino e che vede nel suo lavoro una vocazione, non solo un impiego. Ci si può aspettare, insomma, qualcuno che sappia dosare discrezione e presenza, che abbia una profonda conoscenza del cibo e del vino, che sia capace di creare una connessione tra il cliente, il locale e la cultura del luogo.
Luigi Gargano, proprietario dell’osteria ‘O Ciardin sin dal 2013, nel borgo antico di Sant’Egidio del Monte Albino, incarna tutto ciò. Egli non è solo un gestore ma un ambasciatore della cultura locale e dei sapori autentici. Coniuga il rispetto per le tradizioni con una visione che sa rispondere ai gusti e alle esigenze di oggi, come la scelta di ingredienti sostenibili, l’attenzione alle intolleranze e la valorizzazione delle eccellenze del territorio. L’Osteria, a due passi dalla chiesa della Madonna delle Grazie, le cui prime notizie risalgono al 1639, anche se l’assetto attuale risale alla fine del 1700, è un locale che si contraddistingue per la sua accuratezza, la sua nobile rusticità e il contesto paesaggistico nel quale è immersa, ossia un incantevole giardino di arance e agrumi locali, il cui accesso è veicolato dal cortile di Palzzo Ferrajoli della Cappella, architettura gentilizia e colta del XVIII secolo.
Il locale sembra una finestra aperta sul passato, dove il profumo di cibo genuino e storie antiche si intrecciano. Luigi qui accoglie i visitatori con un sorriso sempre sincero e un menù che diventa pura espressione del territorio sangiliano. Mentre serve un piatto di fusilli sangiliani all’uovo, racconta delle ricette tramandate oralmente, custodite come piccoli tesori. "Qui - dice con una punta di orgoglio - non troverai niente che non venga da questi monti o da queste terre. Dalla carne al vino, passando per le verdure e gli aromi, tutto è frutto della fatica e dell’amore della gente del posto".
Poi parla dei suoi clienti, dei volti degli amici che conosce da anni e dei nuovi visitatori che vengono a cercare un pezzo di autenticità. "O Ciardin - spiega - è il cuore pulsante della comunità: non è solo un luogo dove si mangia, ma qui si condividono risate, racconti e legami che sopravvivono al tempo. In un mondo che va di fretta, qui ci si può fermare, assaporare e ricordare chi siamo e siamo stati".
Ogni angolo dell'osteria racconta un aneddoto: i dipinti alle pareti di un’artista di Sant’Antonio Abate narrano i mestieri, i monumenti, la storia del borgo e delle persone che lo hanno vissuto. Mentre Luigi esterna la sua vivace personalità (una laurea in Economia del Turismo e tanti validi progetti nel cassetto), si capisce che l’osteria non è solo un lavoro per lui, ma una missione: tenere vive le tradizioni e portare avanti l’anima di Sant’Egidio per le generazioni future. Gli ingredienti della sua cucina sono quasi sempre a chilometro zero e di stagione, scelti con cura da produttori locali per garantire un’alta qualità e un’impronta autentica. Il trend si allontana dalle sofisticazioni della cucina gourmet, puntando invece su porzioni più generose, ingredienti riconoscibili e un’ambiente senza fronzoli, ma accogliente.
Al centro c’è anche l’idea di osteria come spazio sociale, dove il cibo è un pretesto per ritrovarsi, per scambiarsi opinioni e per sentirsi parte di una comunità. La clientela che apprezza ‘O Ciardin è variegata: si va dagli anziani, che vi trovano i sapori della loro infanzia, ai giovani, sempre più alla ricerca di esperienze culinarie autentiche e sostenibili. I piatti di questa Osteria, presente da anni nella Guida Osterie d’Italia di Slow Food, raccontano storie di tradizione, fatica e cultura locale. Sono come pagine di un manuale che spiega il legame con la terra, le stagioni e i saperi contadini. Qui il cibo è semplice ma carico di significato: rappresenta il comfort e l'accoglienza, un invito a rallentare e a riscoprire i sapori genuini.
I piatti non sono mai troppo elaborati; sono fatti per saziare, scaldare e rievocare ricordi familiari, come un abbraccio. Zuppe e minestre contadine, spesso a base di legumi o verdure di stagione, carni brasate, grigliate o in umido, contorni di verdure fresche o ripassate, e magari delle patate al forno profumate con erbette di montagna, costituiscono le portate principali del menù, arricchito da paste fatte a mano, un po' di pescato della Costiera Amalfitana, selvaggina e dolci della casa. Il pane è immancabile, spesso fatto in casa o proveniente da forni locali, ed è usato per accompagnare tutto il pasto, raccogliendo sughi e condimenti fino all'ultimo boccone o degustato in purezza con l’olio extravergine d’oliva biologico. E, naturalmente, si possono gustare formaggi locali e salumi artigianali, serviti con marmellate, confetture, mostarde e miele per esaltarne i sapori. L’Osteria propone anche una selezione di vini campani e birre artigianali, accentuando ulteriormente il legame con il territorio.
Si consiglia l’assaggio, in questa stagione, della vellutata di castagne con sciuanelle (listarelle di polenta fritta con lo strutto che fungeva da copertura delle pastiere di maccheroni cotte nel forno a legna il Sabato Santo, per evitare che si bruciassero in superficie) e legnasanta (cachi), gli spaghetti cacio e pepe con zeste di arancia di Sant’Egidio, un vera prelibatezza, lo stoccafisso o meglio il curuniello (filetto) in umido con piennolo giallo e peperoncino, i funghi chiodini saltati in padella, la torta di ricotta e limoni di Sant’Egidio infornata e la caprese alle mandorle con crema inglese al rosmarino e gelato al fiordilatte. Sono piatti capaci di nutrire non solo il corpo, ma anche l’anima, nell'ombra calda dell’osteria si posan gli affanni e svanisce la via, tra pane, vino e silenzi d'argento.
Annamaria Parlato 18/06/2024
Lo street food dell'Agro nocerino-sarnese per eccellenza: 'o pere e 'o musso
Lo street food è una pratica culinaria diffusa in tutto il mondo ed oggi ha assunto anche valore di aggregazione sociale e riscoperta di antichi sapori, tipici di uno specifico territorio. In Campania, questo modo di mangiare ha una radicata storia e da Napoli si è irradiato su tutto il territorio regionale, con varie prelibatezze, preparate con prodotti di grande qualità. Su antichi trattati di ricette gastronomiche italiane, si legge che, dalla fine del settecento, i poveri bollivano i piedi e le teste dei bovini, poi li mangiavano accompagnati da salse, ottenendo pietanze che piacevano anche ai ricchi.
Anticamente, i piedi e le zampe dei bovini potevano essere consumati solo in strada, il venditore era chiamato “o carnacuttaro”, ossia il venditore di carni cotte. Da qui nasce l’usanza di consumare 'o pere e 'o musso, soprattutto nell’Agro nocerino-sarnese, in particolare a San Valentino Torio, sino ai paesi costieri, per la provincia di Salerno. Oggi i clienti possono acquistarlo in tutte le stagioni dell’anno anche presso rivenditori, tagliato in listarelle sottili, spesso viene accompagnato a pezzi di trippa cotta con olive, finocchi e lupini, nella carta oleata modellata come un “cuoppo” con il palmo della mano o in apposite vaschette di plastica, il tutto condito con sale e limone e talvolta un pizzico di peperoncino. Usato a volte tra le pietanze presenti nei banchetti nuziali, è cibo che fa tendenza.
Il prodotto rientra nella categoria “ready to eat” (reg. 2073/05) e consiste ('o musso) nella parte anteriore del cranio, comprendente il labbro superiore ed inferiore, le narici, la mascella, ancora ricoperti di pelle. 'O pere invece è costituito dalla porzione di piede compresa tra la prima e la terza falange, privata dello zoccolo, sempre con la pelle. La tecnica di lavorazione la si può dividere in due fasi principali: scottatura e depilazione, cottura e raffreddamento. Queste parti anatomiche vengono lavate, messe a mollo, scottate, depilate e poi per due o tre ore vengono cotte a 98 °C.
Una volta raffreddati, all’esterno i pezzetti si presentano di colore più o meno chiaro, si riconoscono le strutture cartilaginee traslucide, le strutture muscolari rosa scuro e al tatto non sono viscide. Il profumo è delicato, sa di carne cotta ed il sapore non è mai deciso, ma leggermente fresco. Ai sensi del Decreto Legislativo 537/92, ed ora registrati ai sensi del Reg. CE 853/04, gli stabilimenti per la produzione del prodotto a base di carne bovina sono tutti autorizzati.
Le modifiche al Reg. CE 853/04, apportate dal Reg. CE 1662/2006 del 6 novembre 2006, hanno introdotto delle novità positive nel settore, tanto che si è consentito di non scuoiare le teste dei vitelli, il muso, le labbra e le zampe dei bovini, in modo da facilitare la lavorazione ed il commercio anche al di fuori dei macelli. In Campania 'o pere e 'o musso resta e resterà il protagonista di feste, sagre e bancarelle estive. Un cibo povero ma squisito, irrorato di sale dall’ambulante, che da un lungo corno bucato all’estremità, con una gestualità che ricorda atavici riti, lo fa cadere copioso e lo spruzza di alcune profumate gocce di limone della Costiera Amalfitana.