"Saporitissimo" a Nocera Inferiore dal 30 maggio al 2 giugno

Appuntamento in piazza Diaz con prodotti tipici, artigianato e spettacoli di vario genere

Redazione Sarno 24 25/05/2024 0

Dal 30 maggio al 2 giugno, "Saporitissimo" approda a Nocera Inferiore. Dopo le tappe di Napoli e Sorrento, l'iniziativa coinvolge la città dell'Agro. In piazza Diaz, appuntamento con prodotti tipici, artigianato e spettacoli (di giocoleria/magia, di danza e musicali).

Il programma completo è sulla pagina social istituzionale del Comune di Nocera Inferiore.

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Annamaria Parlato 30/08/2024

Nella valle del Sarno rivive la tradizione della pannocchia d'estate

La pannocchia è la spiga del mais, caratterizzata da un insieme di chicchi disposti in file attorno ad un asse centrale. I chicchi, che variano nel colore dal giallo all'arancione, fino al rosso o viola, sono la parte commestibile della pannocchia. Ha una storia lunga e affascinante, che risale a migliaia di anni fa.

Il mais, da cui deriva la pannocchia, è originario del Messico. Le prime coltivazioni risalgono a circa 9.000 anni fa, quando le popolazioni indigene iniziarono a selezionare e coltivare il teosinte, una pianta erbacea selvatica, che è l'antenato del mais moderno. Attraverso una lunga selezione artificiale, gli antichi agricoltori riuscirono a sviluppare le varietà di mais che conosciamo oggi. Il mais si diffuse rapidamente in tutta l'America, diventando un alimento base per molte civiltà precolombiane, come i Maya, gli Aztechi e gli Inca.

Oltre al suo utilizzo alimentare, il mais aveva anche un ruolo importante in cerimonie religiose e culturali. Fu introdotto in Europa dopo l'arrivo di Cristoforo Colombo nelle Americhe, nel 1492. Gli esploratori spagnoli e portoghesi portarono i semi di mais nei loro paesi d'origine, dove la pianta si adattò bene ai climi temperati. Nei secoli successivi, il mais si diffuse in tutta Europa, Asia e Africa. In Italia, la sua coltivazione prese piede soprattutto nel nord, nelle regioni della Pianura Padana, dove il clima era favorevole alla sua crescita.

In Italia, il mais divenne rapidamente un alimento base, soprattutto nelle regioni settentrionali. La polenta, un piatto a base di farina di mais, divenne uno dei cibi più comuni tra le popolazioni rurali. La pannocchia, invece, era consumata sia fresca che essiccata. Con il tempo, la coltivazione del mais contribuì alla rivoluzione agricola in Europa, poiché offriva un raccolto abbondante e nutriente, che poteva sfamare grandi popolazioni. La pannocchia è diventata un simbolo di abbondanza e prosperità. In molte culture, è associata al raccolto e alla festa.

Oggi, il mais è una delle colture più importanti al mondo. Viene utilizzato non solo per l'alimentazione umana, ma anche per la produzione di mangimi animali, biocarburanti e numerosi prodotti industriali. La pannocchia, in particolare, rimane un cibo apprezzato e viene consumata in molte forme diverse, è anche utilizzata per produrre farina di mais, olio e altre derrate alimentari. È spesso protagonista nelle sagre italiane, dove viene celebrata come simbolo di tradizione agricola e gastronomica. Durante queste feste popolari, che si svolgono solitamente nei mesi estivi o all'inizio dell'autunno, la pannocchia viene preparata in vari modi, ma la versione più comune è quella grigliata o arrostita.

A Castel San Giorgio (SA), nella valle del Sarno, ogni anno si tiene la Sagra della Pasta e Fagioli e della Pannocchia, dove viene servita anche fritta. La pannocchia viene spesso cotta su grandi griglie all'aperto, esaltando il suo sapore dolce e affumicato. I partecipanti alle sagre la consumano direttamente dal torsolo, magari condita con un po' di sale, burro, salse o altre spezie, ma anche cioccolata. La pannocchia è diventata un simbolo dell'estate, associata a momenti di relax, vacanze e pasti all'aperto. La sua popolarità durante i mesi estivi è un esempio di come le tradizioni agricole si siano integrate nelle abitudini alimentari moderne.

Il venditore di pannocchie era una figura popolare ("o' spicaiolo"), particolarmente amata dai bambini e dai lavoratori, che cercavano uno spuntino economico e nutriente. In molte comunità, il venditore di pannocchie (dette in dialetto "pullanchelle") era conosciuto da tutti e la sua presenza era un segno del cambio di stagione. Sebbene oggi questa professione sia meno comune, specialmente nelle città, il ricordo del venditore di pannocchie rimane vivo nella memoria collettiva e in alcune sagre, dove questo ruolo viene celebrato e a volte ricreato.

Il profumo che emana il pentolone ("caurara") in cui bollono le spighe riporta indietro nel tempo, all’infanzia e alla gestualità dei venditori ambulanti, che in grandi fogli di carta oleata le avvolgevano, ricoprendole di sale che fuoriusciva da un grande corno di bue, lo stesso utilizzato per insaporire "o’ per e o’ muss".

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Annamaria Parlato 28/10/2024

Sant'Egidio, i piatti dell'osteria 'O Ciardin nutrono anche l'anima

Da un oste ci si può aspettare molto più di un semplice servizio al tavolo. Un oste è, prima di tutto, un padrone di casa, un anfitrione capace di creare un'atmosfera calorosa e accogliente, che fa sentire ogni cliente come un ospite speciale. È quella figura che sa mettere a proprio agio, pronto a spiegare ogni piatto del menù, a raccontare l’origine degli ingredienti, le storie che stanno dietro le ricette, persino qualche aneddoto sul locale e sui clienti abituali.

L’oste ideale conosce a fondo il territorio e i suoi sapori; è appassionato del proprio mestiere e ama condividere questa passione con chiunque entri nel locale. Sa consigliare il vino giusto per ogni portata, spiegare perché quella ricetta si prepara in un certo modo, raccontare la stagionalità e la provenienza degli ingredienti. Spesso, questo fa la differenza nell’esperienza del cliente, che non vive solo un pasto ma un piccolo viaggio culturale attraverso la tradizione e la storia del luogo.

Inoltre, l'oste sa quando fare un passo indietro per lasciare che i clienti si godano il loro momento di tranquillità e quando invece unirsi al tavolo per uno scambio di battute o due chiacchiere. È una figura che rappresenta l'autenticità, qualcuno che non ha paura di mostrarsi genuino e che vede nel suo lavoro una vocazione, non solo un impiego. Ci si può aspettare, insomma, qualcuno che sappia dosare discrezione e presenza, che abbia una profonda conoscenza del cibo e del vino, che sia capace di creare una connessione tra il cliente, il locale e la cultura del luogo.

Luigi Gargano, proprietario dell’osteria ‘O Ciardin sin dal 2013, nel borgo antico di Sant’Egidio del Monte Albino, incarna tutto ciò. Egli non è solo un gestore ma un ambasciatore della cultura locale e dei sapori autentici. Coniuga il rispetto per le tradizioni con una visione che sa rispondere ai gusti e alle esigenze di oggi, come la scelta di ingredienti sostenibili, l’attenzione alle intolleranze e la valorizzazione delle eccellenze del territorio. L’Osteria, a due passi dalla chiesa della Madonna delle Grazie, le cui prime notizie risalgono al 1639, anche se l’assetto attuale risale alla fine del 1700, è un locale che si contraddistingue per la sua accuratezza, la sua nobile rusticità e il contesto paesaggistico nel quale è immersa, ossia un incantevole giardino di arance e agrumi locali, il cui accesso è veicolato dal cortile di Palzzo Ferrajoli della Cappella, architettura gentilizia e colta del XVIII secolo.

Il locale sembra una finestra aperta sul passato, dove il profumo di cibo genuino e storie antiche si intrecciano. Luigi qui accoglie i visitatori con un sorriso sempre sincero e un menù che diventa pura espressione del territorio sangiliano. Mentre serve un piatto di fusilli sangiliani all’uovo, racconta delle ricette tramandate oralmente, custodite come piccoli tesori. "Qui - dice con una punta di orgoglio - non troverai niente che non venga da questi monti o da queste terre. Dalla carne al vino, passando per le verdure e gli aromi, tutto è frutto della fatica e dell’amore della gente del posto".

Poi parla dei suoi clienti, dei volti degli amici che conosce da anni e dei nuovi visitatori che vengono a cercare un pezzo di autenticità. "O Ciardin - spiega - è il cuore pulsante della comunità: non è solo un luogo dove si mangia, ma qui si condividono risate, racconti e legami che sopravvivono al tempo. In un mondo che va di fretta, qui ci si può fermare, assaporare e ricordare chi siamo e siamo stati".

Ogni angolo dell'osteria racconta un aneddoto: i dipinti alle pareti di un’artista di Sant’Antonio Abate narrano i mestieri, i monumenti, la storia del borgo e delle persone che lo hanno vissuto. Mentre Luigi esterna la sua vivace personalità (una laurea in Economia del Turismo  e tanti validi progetti nel cassetto), si capisce che l’osteria non è solo un lavoro per lui, ma una missione: tenere vive le tradizioni e portare avanti l’anima di Sant’Egidio per le generazioni future. Gli ingredienti della sua cucina sono quasi sempre a chilometro zero e di stagione, scelti con cura da produttori locali per garantire un’alta qualità e un’impronta autentica. Il trend si allontana dalle sofisticazioni della cucina gourmet, puntando invece su porzioni più generose, ingredienti riconoscibili e un’ambiente senza fronzoli, ma accogliente.

Al centro c’è anche l’idea di osteria come spazio sociale, dove il cibo è un pretesto per ritrovarsi, per scambiarsi opinioni e per sentirsi parte di una comunità. La clientela che apprezza ‘O Ciardin è variegata: si va dagli anziani, che vi trovano i sapori della loro infanzia, ai giovani, sempre più alla ricerca di esperienze culinarie autentiche e sostenibili. I piatti di questa Osteria, presente da anni nella Guida Osterie d’Italia di Slow Food, raccontano storie di tradizione, fatica e cultura locale. Sono come pagine di un manuale che spiega il legame con la terra, le stagioni e i saperi contadini. Qui il cibo è semplice ma carico di significato: rappresenta il comfort e l'accoglienza, un invito a rallentare e a riscoprire i sapori genuini.

I piatti non sono mai troppo elaborati; sono fatti per saziare, scaldare e rievocare ricordi familiari, come un abbraccio. Zuppe e minestre contadine, spesso a base di legumi o verdure di stagione, carni brasate, grigliate o in umido, contorni di verdure fresche o ripassate, e magari delle patate al forno profumate con erbette di montagna, costituiscono le portate principali del menù, arricchito da paste fatte a mano, un po' di pescato della Costiera Amalfitana, selvaggina e dolci della casa. Il pane è immancabile, spesso fatto in casa o proveniente da forni locali, ed è usato per accompagnare tutto il pasto, raccogliendo sughi e condimenti fino all'ultimo boccone o degustato in purezza con l’olio extravergine d’oliva biologico. E, naturalmente, si possono gustare formaggi locali e salumi artigianali, serviti con marmellate, confetture, mostarde e miele per esaltarne i sapori. L’Osteria propone anche una selezione di vini campani e birre artigianali, accentuando ulteriormente il legame con il territorio.

Si consiglia l’assaggio, in questa stagione, della vellutata di castagne con sciuanelle (listarelle di polenta fritta con lo strutto che fungeva da copertura delle pastiere di maccheroni cotte nel forno a legna il Sabato Santo, per evitare che si bruciassero in superficie) e legnasanta (cachi), gli spaghetti cacio e pepe con zeste di arancia di Sant’Egidio, un vera prelibatezza, lo stoccafisso o meglio il curuniello (filetto) in umido con piennolo giallo e peperoncino, i funghi chiodini saltati in padella, la torta di ricotta e limoni di Sant’Egidio infornata e la caprese alle mandorle con crema inglese al rosmarino e gelato al fiordilatte. Sono piatti capaci di nutrire non solo il corpo, ma anche l’anima, nell'ombra calda dell’osteria si posan gli affanni e svanisce la via, tra pane, vino e silenzi d'argento.

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Annamaria Parlato 17/01/2025

Storia e cultura nel soffritto di Sant'Antuono, tipico dell'Agro Nocerino

Il soffritto, piatto partenopeo, mantiene una forte presenza culturale anche nell’Agro nocerino-sarnese, dove è particolarmente consumato durante la festa di Sant’Antuono, il 17 gennaio. Questa celebrazione, dedicata al santo protettore degli animali, è caratterizzata da tradizioni culinarie che includono piatti a base di maiale, tra cui il soffritto. La preparazione di questa pietanza, in occasione della festa, diventa un momento di condivisione comunitaria, rafforzando il legame tra cibo e tipicità.

Nonostante le sue umili origini, il soffritto è oggi considerato patrimonio gastronomico regionale. Piatti come la pasta con il soffritto, le bruschette, la pizza fritta o persino il “cuzzetiello” al soffritto ne testimoniano la versatilità. Il suo sapore intenso e unico continua a raccontare la storia di un popolo capace di trasformare ingredienti semplici in capolavori culinari. Con il suo sapore deciso e piccante, dato dall'abbondante utilizzo di peperoncino e concentrato di pomodoro, la “zuppa forte” racchiude secoli di storia e cultura gastronomica.

Questo piatto, che utilizza frattaglie di maiale come cuore, polmone, fegato, trachea, diaframma, reni e milza, nacque dalla necessità di sfruttare ogni parte dell'animale, un principio fondamentale della cucina popolare partenopea. Un ruolo fondamentale nella diffusione del soffritto fu svolto dalle "zendraglie", le venditrici ambulanti di frattaglie e interiora animali. Queste donne, figure iconiche della Napoli settecentesca, popolavano i mercati rionali e i vicoli della città, trasformando la vendita in una performance pubblica con grida e canti. Il termine "zendraglia" deriva probabilmente dal dialetto e richiama materiali di scarto, in linea con la merce venduta: parti meno pregiate degli animali, rese accessibili alle classi popolari; contribuirono a radicare nella cultura culinaria napoletana il principio del non spreco e l'importanza di valorizzare ogni risorsa disponibile.

Il piatto ha in ogni caso origini antiche e il suo primo riferimento scritto si trova in "La Cucina Teorico-Pratica" (1837) di Ippolito Cavalcanti. Questo nobile appassionato di cucina non solo codificò ricette aristocratiche, ma raccolse anche piatti popolari, descrivendoli in dialetto napoletano. La ricetta del soffritto, con le sue interiora di maiale insaporite da spezie e pomodoro, riflette la tradizione popolare di valorizzare ogni risorsa disponibile. Ulisse Prota Giurleo, noto studioso delle tradizioni napoletane, ha riportato una ricetta manoscritta del soffritto datata 1743, rinvenuta sul retro di un documento notarile. Attribuita ad Annarella, proprietaria di una taverna a Porta Capuana, questo documento descrive l’uso di frattaglie cotte nello strutto con aglio e alloro. Prota Giurleo ha anche documentato i garzoni delle taverne che invitavano i passanti a gustare il soffritto, testimoniando l’importanza di questo piatto nella cultura popolare.

Salvatore Di Giacomo ha celebrato la cucina napoletana nelle sue opere, descrivendo l’amore del popolo per piatti semplici e saporiti, contribuendo a preservare l’identità culinaria partenopea. Anche Matilde Serao, nel suo celebre "Il ventre di Napoli" (1884), menziona il soffritto, definendolo dinamite e descrive il cibo come specchio delle condizioni sociali. Nel capitolo "Quello che mangiano", Serao racconta la creatività dei napoletani nel trasformare ingredienti poveri in piatti saporiti. Il soffritto si inserisce perfettamente in questo contesto culturale, rappresentando l'ingegno e la resilienza del popolo partenopeo.

Per realizzarlo vi sono diversi passaggi da seguire. Bisogna innanzitutto lavare accuratamente le frattaglie sotto acqua corrente fredda per eliminare eventuali impurità e poi si tagliano a piccoli pezzi. In una casseruola capiente, si scalda l’olio (o lo strutto) e si soffrigge la cipolla tritata finemente insieme agli spicchi d’aglio interi, che possono essere rimossi successivamente. Dopodichè si aggiungono le foglie di alloro e il peperoncino, lasciando insaporire per qualche minuto.

Unire poi le frattaglie e farle rosolare a fuoco vivace, mescolando frequentemente. Sfumare con un bicchiere di vino rosso e lasciare evaporare l’alcol. Incorporare il concentrato di pomodoro e, a piacere, anche l'estratto di peperoni per donare più colore e sapore, mescolare bene e cuocere a fuoco lento per 2 ore circa. Aggiustare di sale a fine della cottura. Infine servire il soffritto caldo, accompagnandolo con pane casereccio tostato o utilizzandolo come condimento per la pasta.

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