Nell'Agro nocerino-sarnese si conservano i pomodori autoctoni per l'inverno

Le nonne li essiccavano al sole, seguendo una pratica tradizionale e ben consolidata

Annamaria Parlato 30/07/2024 0

Il pomodoro secco è nato come risposta pratica e ingegnosa alla necessità di conservare lo stesso durante i mesi invernali, quando la disponibilità di quello fresco era limitata. L'usanza estiva dei pomodori secchi è una tradizione molto radicata in diverse regioni del sud Italia, specialmente in Campania, Sicilia, Calabria, Puglia e Basilicata. Questa pratica consiste nel conservare i pomodori attraverso l'essiccazione al sole, un metodo antico e naturale che permette di mantenere il gusto e le proprietà nutritive del frutto per lunghi periodi, senza necessità di refrigerazione.

Questo metodo ha radici antiche e si è sviluppato in diverse culture mediterranee, dove le condizioni climatiche erano ideali per l'essiccazione naturale degli alimenti. L'essiccazione è una delle più antiche tecniche di conservazione degli alimenti, utilizzata molto prima dell'invenzione della refrigerazione. Popoli antichi come gli Egizi, i Greci e i Romani essiccavano vari tipi di frutta e verdura per conservarli durante i periodi di scarsità.

Il pomodoro è originario delle Americhe e fu introdotto in Europa dai colonizzatori spagnoli nel XVI secolo. Inizialmente, il pomodoro era considerato una pianta ornamentale e solo gradualmente fu accettato come alimento. Nel sud Italia, il pomodoro divenne rapidamente una parte integrante della dieta locale, grazie al clima caldo e soleggiato che favoriva la coltivazione di questa pianta. Le comunità rurali del Meridione e di altre regioni mediterranee iniziarono ad adattare le tecniche di essiccazione già utilizzate per altre piante, come i fichi e le olive, applicandole ai pomodori. La tecnica dell'essiccazione al sole si sviluppò in modo particolare in regioni come la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania, dove il sole estivo è particolarmente intenso e l'umidità è bassa. Questo metodo permetteva alle famiglie di evitare gli sprechi, utilizzando tutto il raccolto di pomodori anche quando era abbondante.

Con il passare del tempo, il pomodoro secco divenne una parte importante della cucina tradizionale italiana e mediterranea. Le ricette e le tecniche di essiccazione si tramandavano di generazione in generazione, diventando parte del patrimonio culinario locale. La crescente popolarità della cucina mediterranea a livello internazionale ha portato il pomodoro secco sulle tavole di tutto il mondo, rendendolo un ingrediente apprezzato in molte ricette. L'essiccazione concentra il sapore dei pomodori, esaltandone la dolcezza e l'intensità. Questo rende i pomodori secchi un ingrediente versatile, utilizzabile in una vasta gamma di piatti, dai primi alle insalate, dalle salse ai contorni. I pomodori secchi mantengono gran parte dei nutrienti presenti nei pomodori freschi, come le vitamine A e C, il licopene e altri antiossidanti benefici per la salute. Sono facili da conservare e hanno una lunga durata, specialmente se immersi in olio d'oliva o in contenitori ermetici in un luogo fresco e buio.

Per la procedura tradizionale vengono scelti pomodori maturi, solitamente della varietà San Marzano o Piennolo, che sono tipici dell’Agro nocerino-sarnese, particolarmente carnosi e adatti all'essiccazione. I pomodori vengono lavati, tagliati a metà longitudinalmente e disposti su graticci o reti di essiccazione, con la parte tagliata rivolta verso l'alto. Le metà dei pomodori vengono cosparse con sale grosso, che aiuta a disidratarli e a preservarne il colore e il sapore. I pomodori vengono esposti al sole per diversi giorni, in genere da una settimana a dieci giorni, a seconda delle condizioni climatiche. Durante questo periodo, vengono ritirati ogni sera per proteggerli dall'umidità notturna e coperti con teli leggeri per preservarli da insetti e polvere.

Una volta completamente essiccati, i pomodori vengono raccolti e conservati in vasetti di vetro con olio d'oliva, eventualmente aromatizzati con aglio, peperoncino, origano o altre erbe aromatiche. Possono essere anche conservati in sacchetti di tela o contenitori ermetici, in luoghi freschi e asciutti. Sono estremamente versatili e possono essere utilizzati in vari modi in cucina: sono ideali come antipasto, spesso accompagnati da formaggi, olive e pane; aggiunti a pasta e risotti, per un tocco di sapore intenso e dolce; utilizzati in farciture di carne, pesce o verdure; nelle insalate, per un gusto deciso; tritati e usati come condimento per pizze, focacce o bruschette. Questa cibo tradizionale non solo celebra la stagionalità e la conservazione naturale degli alimenti, ma rappresenta anche un legame con la cultura e le radici gastronomiche delle regioni mediterranee.

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Annamaria Parlato 17/01/2025

Storia e cultura nel soffritto di Sant'Antuono, tipico dell'Agro Nocerino

Il soffritto, piatto partenopeo, mantiene una forte presenza culturale anche nell’Agro nocerino-sarnese, dove è particolarmente consumato durante la festa di Sant’Antuono, il 17 gennaio. Questa celebrazione, dedicata al santo protettore degli animali, è caratterizzata da tradizioni culinarie che includono piatti a base di maiale, tra cui il soffritto. La preparazione di questa pietanza, in occasione della festa, diventa un momento di condivisione comunitaria, rafforzando il legame tra cibo e tipicità.

Nonostante le sue umili origini, il soffritto è oggi considerato patrimonio gastronomico regionale. Piatti come la pasta con il soffritto, le bruschette, la pizza fritta o persino il “cuzzetiello” al soffritto ne testimoniano la versatilità. Il suo sapore intenso e unico continua a raccontare la storia di un popolo capace di trasformare ingredienti semplici in capolavori culinari. Con il suo sapore deciso e piccante, dato dall'abbondante utilizzo di peperoncino e concentrato di pomodoro, la “zuppa forte” racchiude secoli di storia e cultura gastronomica.

Questo piatto, che utilizza frattaglie di maiale come cuore, polmone, fegato, trachea, diaframma, reni e milza, nacque dalla necessità di sfruttare ogni parte dell'animale, un principio fondamentale della cucina popolare partenopea. Un ruolo fondamentale nella diffusione del soffritto fu svolto dalle "zendraglie", le venditrici ambulanti di frattaglie e interiora animali. Queste donne, figure iconiche della Napoli settecentesca, popolavano i mercati rionali e i vicoli della città, trasformando la vendita in una performance pubblica con grida e canti. Il termine "zendraglia" deriva probabilmente dal dialetto e richiama materiali di scarto, in linea con la merce venduta: parti meno pregiate degli animali, rese accessibili alle classi popolari; contribuirono a radicare nella cultura culinaria napoletana il principio del non spreco e l'importanza di valorizzare ogni risorsa disponibile.

Il piatto ha in ogni caso origini antiche e il suo primo riferimento scritto si trova in "La Cucina Teorico-Pratica" (1837) di Ippolito Cavalcanti. Questo nobile appassionato di cucina non solo codificò ricette aristocratiche, ma raccolse anche piatti popolari, descrivendoli in dialetto napoletano. La ricetta del soffritto, con le sue interiora di maiale insaporite da spezie e pomodoro, riflette la tradizione popolare di valorizzare ogni risorsa disponibile. Ulisse Prota Giurleo, noto studioso delle tradizioni napoletane, ha riportato una ricetta manoscritta del soffritto datata 1743, rinvenuta sul retro di un documento notarile. Attribuita ad Annarella, proprietaria di una taverna a Porta Capuana, questo documento descrive l’uso di frattaglie cotte nello strutto con aglio e alloro. Prota Giurleo ha anche documentato i garzoni delle taverne che invitavano i passanti a gustare il soffritto, testimoniando l’importanza di questo piatto nella cultura popolare.

Salvatore Di Giacomo ha celebrato la cucina napoletana nelle sue opere, descrivendo l’amore del popolo per piatti semplici e saporiti, contribuendo a preservare l’identità culinaria partenopea. Anche Matilde Serao, nel suo celebre "Il ventre di Napoli" (1884), menziona il soffritto, definendolo dinamite e descrive il cibo come specchio delle condizioni sociali. Nel capitolo "Quello che mangiano", Serao racconta la creatività dei napoletani nel trasformare ingredienti poveri in piatti saporiti. Il soffritto si inserisce perfettamente in questo contesto culturale, rappresentando l'ingegno e la resilienza del popolo partenopeo.

Per realizzarlo vi sono diversi passaggi da seguire. Bisogna innanzitutto lavare accuratamente le frattaglie sotto acqua corrente fredda per eliminare eventuali impurità e poi si tagliano a piccoli pezzi. In una casseruola capiente, si scalda l’olio (o lo strutto) e si soffrigge la cipolla tritata finemente insieme agli spicchi d’aglio interi, che possono essere rimossi successivamente. Dopodichè si aggiungono le foglie di alloro e il peperoncino, lasciando insaporire per qualche minuto.

Unire poi le frattaglie e farle rosolare a fuoco vivace, mescolando frequentemente. Sfumare con un bicchiere di vino rosso e lasciare evaporare l’alcol. Incorporare il concentrato di pomodoro e, a piacere, anche l'estratto di peperoni per donare più colore e sapore, mescolare bene e cuocere a fuoco lento per 2 ore circa. Aggiustare di sale a fine della cottura. Infine servire il soffritto caldo, accompagnandolo con pane casereccio tostato o utilizzandolo come condimento per la pasta.

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Annamaria Parlato 27/04/2024

Violetto e Pignatella, i carciofi di Castellammare e dell'Agro Nocerino-Sarnese

Il carciofo di Castellammare, chiamato anche “violetto” o “carciofo di Schito”, si presenta come privo di spine, tenerissimo, con le foglie esterne che vanno a degradare dal rosa al viola, con grandi infiorescenze rotonde. La sua origine affonda le radici nell’epoca romana: una frazione di Castellammare di Stabia, Schito, era considerata al tempo particolarmente vocata all’orticoltura. Prova ne è che la zona, non lontana da Pompei, era identificata con il toponimo “orti di Schito”. Questo carciofo ha una maturazione molto precoce, infatti si raccoglie nel periodo compreso tra febbraio e maggio, anche se a marzo iniziano a spuntare le cosiddette “mammarelle”, ossia i capolini centrali. In epoca borbonica, era soprannominato “primaticcio”, come si evince da svariati manuali di agricoltura.

Il carciofo Pignatella assume questo buffa denominazione per la particolare tecnica di coltivazione. E’ tipico dell’Agro Nocerino-Sarnese e dell’area vesuviana. La “pignatella” è un recipiente di terracotta, simile ad una tazza senza il manico, che si utilizza come copri-capolino, dal momento della sua nascita sino alla raccolta, per proteggerlo dai violenti raggi del sole e dagli agenti atmosferici. Questa tecnica è descritta perfino da Plinio il Vecchio nei suoi scritti ed era in voga nell’antica Pompei. La coltivazione di questo carciofo è spesso a conduzione familiare, ricopre un arco temporale che va da marzo sino alla prima decade di giugno.

Nel periodo pasquale, questo carciofo assume delle fantastiche sfumature violaceo-rossastre e le brattee diventano particolarmente tenere. Con i piccoli capolini si producono meravigliosi sott'oli, mentre tutto il carciofo si presta per la preparazione di parmigiane, carpacci o per essere arrostito. Ha un legame forte con la tradizione della Pasqua, che normalmente coincide con il periodo centrale della produzione. In particolare, il carciofo arrostito sulla brace è il piatto simbolo del sabato santo e del lunedì di Pasquetta di tutte le famiglie del territorio. Si usa il carciofo intero, posto direttamente nella brace di una fornacella o camino. Quando è cotto (dopo circa mezz’ora), viene ripulito delle foglie bruciacchiate, condito con sale, pepe, prezzemolo, aglio fresco e olio, poi adagiato su una fetta di pane casereccio e consumato in abbinamento agli insaccati della tradizione contadina (in particolare dei Monti Lattari): salame, soppressata e salsiccia secca.

Le altre varietà campane

Il carciofo di Procida, la più piccola delle isole del Golfo di Napoli, è del tipo romanesco, con capolini primari globosi e grossi di colore verde chiaro e con capolini secondari di color viola e di dimensioni inferiori. La pianta è robusta ed è capace di produrre capolini anche del terzo, quarto e quinto ordine. La tradizione vuole che i capolini del secondo ordine, secondo una ricetta tradizionale, siano utilizzati per la preparazione di vasetti di sott'oli. I capolini vengono sbollentati in acqua, aceto di vino bianco e sale, e poi conditi con olio extravergine, aglio, origano e peperoncino.

Il Carciofo di Paestum, o “tondo di Paestum”, ha forma subsferica, aroma delicato e straordinarie proprietà nutrizionali. I capolini sono molto compatti, le spine sono assenti e la precocità della maturazione lo rendono unico, tanto da caratterizzare, con le enormi distese, il paesaggio della Piana del Sele. La maturazione precoce poi lo rende competitivo nei mercati ortofrutticoli, in quanto può esser venduto per primo, rispetto alle varietà romanesche. Ha proprietà benefiche e disintossicanti, dovute al suo contenuto in sali e vitamine. E’ tra gli ingredienti più usati nella cucina cilentana, lo si trova in delicate creme, ideale condimento per la pasta fatta a mano, sulle pizze e nei rustici.

A Pertosa, in provincia di Salerno, il carciofo in dialetto si chiama “carcioffola”. La produzione del carciofo bianco va da maggio a giugno, sino alla raccolta degli esemplari più piccoli, che vengono impiegati nella preparazione di conserve. Non ha spine, è rotondo e ha un colore particolarissimo, tendente all’argento, le infiorescenze sono forate al centro. La lavorazione è manuale e a conduzione familiare, in terreni di piccole dimensioni. Anticamente, le foglie di questo carciofo erano considerate merce di scambio, poiché si capì che potevano essere un ottimo integratore nella dieta delle mucche da latte. Quindi, gli orticoltori di Pertosa, in cambio di letame, usato come concime, le cedevano agli allevatori.

Intorno al 1840, nella cittadina di Pietrelcina, in provincia di Benevento, un prefetto originario di Bari introdusse la coltivazione del carciofo. Ancora oggi si richiede un lavoro umano notevole per la sua produzione, che in genere avviene in piccoli appezzamenti di terra. In estate si tagliano gli steli, in autunno c’è la cosiddetta “scarducciatura”, ossia l’eliminazione dei germogli superflui, che viene ripetuta anche in primavera, quando i cardi appena estirpati vengono adagiati sulle infiorescenze immature, per preservarle dal calore dei raggi solari. A maggio, ogni anno nel paese si celebra una tradizionale sagra.

Il nome Capuanella è un vezzeggiativo e deriva appunto dalla città di Capua, in provincia di Caserta, zona rinomata per la produzione di quest’ortaggio. Il carciofo Capuanella in genere si presenta di colore verde scuro, matura tra fine marzo ed inizio aprile ed è ricco di proprietà organolettiche. Appartenente alla famiglia dei carciofi romaneschi, ha foglie molto fitte e raccolte. E’ rinomato per esser tenero e per esser degustato arrostito, in occasione delle feste.

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Redazione Sarno 24 13/11/2024

"Di Food in Tour" a Nocera Superiore fra archeologia e tipicità culinarie

Nocera Superiore si prepara a dare il benvenuto agli appassionati di storia, cultura e tradizioni locali, domenica 17 novembre alle 9:30, aderendo al progetto "Di Food in Tour", giunto alla quarta tappa nell’Agro nocerino-sarnese. I partecipanti avranno l'opportunità di immergersi nel patrimonio storico e archeologico della città, guidati dal Gruppo Nuceria e accolti dall’amministrazione comunale per un saluto inaugurale e un caffè di benvenuto presso il bar "La Rotonda".

L’itinerario (prenotabile sino a venerdì 15 novembre tramite questo link) avrà inizio dalla Domus del Decumano, punto di partenza per un’affascinante esplorazione dell’antica città di Nuceria. I visitatori saranno guidati tra i resti archeologici della cittadina, scoprendo opere di rara bellezza e importanza storica.

L’attenzione sarà poi rivolta a monumenti significativi come il Battistero Paleocristiano di Santa Maria Maggiore e l'adiacente Antiquarium, che conserva importanti reperti, oltre al Museo delle Arti Grafiche Applicate, situato nella suggestiva Villa de’ Ruggiero. La visita proseguirà fino alla Terrazza di Oschito, dove i partecipanti avranno la possibilità di ammirare il Teatro Ellenistico-Romano e comprendere l'importanza culturale e artistica di Nuceria nell'antichità.

Concluso il percorso storico-archeologico, l’itinerario si sposterà verso la scoperta dei sapori del territorio con un pranzo presso il Ristorante "Nounù". Gli ospiti potranno gustare specialità locali di stagione, con un menù che celebra i prodotti tipici e le tradizioni culinarie della zona. Dopo il pranzo, il tour continuerà con la visita alla rinomata industria conserviera "La Carmela", celebre per la produzione di pomodori d’eccellenza, dove i visitatori avranno l’opportunità di apprendere i segreti di una lavorazione che affonda le radici nella tradizione. Il tour si concluderà nel pomeriggio con il rientro dei partecipanti.

Il CTG Gruppo Picentia di Salerno, presieduto dalla d.ssa Mina Felici, invita tutti i cultori dell’archeologia e dell’enogastronomia a partecipare a questa iniziativa, che rappresenta un'occasione unica per esplorare il passato millenario della città e apprezzare le eccellenze culinarie e produttive del territorio.

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